A cambiare la sua vita è stato il film di Wim Wenders Pina sulla carriera della ballerina Pina Bausch. Da allora Angelo Silvio Vasta, milanese, da sei anni a New York, ha capito la potenza del connubio cinema e danza. Da piccolo sognava di fare il ballerino ma muove i primi passi soltanto a 22 anni. Prima la formazione classica e la laurea in scienze politiche, poi la folgorazione definitiva. Frequenta la scuola di Ariella Vidach, artista e coreografa di danza contemporanea formatasi a New York, che lo espone a un’idea di danza e movimento nuova rafforzando in Angelo il desiderio di trasferirsi a New York.

Nella Grande Mela, Angelo frequenta la scuola di cinema presso la New School University e oggi lavora per diverse compagnie della città, tra cui Ballet Hispanico, Gallim Dance, FJK Dance, Madboots, Caterina Rago Dance, Dardo Galletto, Breton Follies, Vangeline Theater e Anna Sokolow Dance, occupandosi di video danza. “Per me fare un video di danza significa molto di più di fare un video che abbia come soggetto la danza. Ascolto attentamente le parole del coreografo, cerco sempre di identificarmi col soggetto che sta davanti alla mia lente (quasi a illudermi di poter essere lui) e quando riprendo un danzatore in azione, cerco di connettermi a lui, facendo sì che la telecamera possa danzare assieme lui”, ha dichiarato.
Vasta ci parla poi di New York e della sua Milano: “A New York la danza è dappertutto. Qui i ballerini li vedi ovunque e li sai riconoscere. Questo per me è importante, perché solo in una città tempio della danza nel mondo potrei fare il mestiere che faccio. Mi piacerebbe lavorare in Italia, ma le opportunità sarebbero sicuramente minori o comunque diverse. Penso che in Italia la danza non faccia tanto parte della cultura popolare del paese”.
In che modo, con la video danza, racconti questo mondo che ti ha sempre affascinato?
“L’idea di questo mestiere nasce dalla mia passione per la danza, passione che ho sin da quando ero bambino. Da piccolo sognavo di diventare un ballerino professionista, ma ho iniziato a studiare danza solo all’età di 22 anni (un anno prima di partire per New York). La mia insegnate di danza era Ariella Vidach, artista e coreografa di danza contemporanea formatasi a New York con i coreografi più significativi della generazione moderna e postmoderna (Trisha Brown, Merce Cunningham…). Ariella mi espose a un’idea di danza e movimento che finora ignoravo, e la ventata di internazionalità di cui era portatrice rafforzava in me il desiderio di trasferirmi a New York”.
Da quale prospettiva hai deciso di raccontarlo?
“La telecamera è il mezzo che mi consente di avere accesso a questo mondo e di poterci interagire. Quasi voyeuristicamente, è attraverso la lente che esploro e osservo da un punto di vista molto ravvicinato una dimensione artistica che mi ha sempre affascinato. Il mio lavoro mostra soprattutto i retroscena e il processo creativo, più che il risultato finale di una performance. Mi interessa esplorare e raccontare tutto ciò che accade nelle sale di prova di una compagnia e documentare la nascita di una coreografia. Il linguaggio coreografico è talmente astratto e articolato che mi ha sempre incuriosito molto capire come nasce una coreografia e come la si costruisce. A teatro, sul palcoscenico, vediamo soltanto una minima parte, la parte finale, di un percorso creativo iniziato molti mesi prima, a volte anche anni. Essendo sempre stato un gran sostenitore della massima ‘il viaggio è più importante della meta’, ritengo importante e interessante raccontare la genesi e lo sviluppo di una produzione, una fase a cui il pubblico non può avere accesso se non attraverso il di un filmmaker che ha deciso di raccontarla”.
Hai detto che alcuni film ti hanno cambiato la vita e avvicinato al mondo della danza. Che cosa significa per te la danza?
“Da piccolo pensavo che danzare significasse fare giravolte, spaccate e capriole. Crescendo ho imparato che il termine ‘danza’ ha un significato ben maggiore, che va oltre le specifiche abilità/dimostrazioni tecniche e fisiche. Per me ‘danza’ significa esprimere/visualizzare qualcosa attraverso il corpo (può essere un concetto, un sentimento, un paesaggio…). Negli ultimi anni la mia idea di danza si è semplificata molto, diventando sempre più astratta e concettuale. Penso che anche un semplice gesto come un abbraccio, se dato con una forte intenzione comunicativa, possa entrare a far parte del termine danza. La coreografa Stephanie Martinez, con cui ho lavorato nel 2016, diceva che i ballerini sono dipinti/arte in movimento, e che il suo lavoro di coreografa è quello di osservare la realtà che la circonda per poi raccontarla attraverso il corpo dei danzatori nel modo più umano possibile, affinché il pubblico possa rivedersi e identificarsi. Condivido molto questa definizione di danza”.
New York e la danza, ma anche Milano, la tua città e la danza. Come queste due città esprimono questa dimensione artistica?
“Milano e la danza: il pensiero va subito al Teatro alla Scala, un’istituzione sacra della città che ha ospitato e ha visto esibirsi le personalità più importanti al mondo nell’ambito della danza e del balletto classico. Al di là del Teatro alla Scala, non penso che a Milano la scena della danza sia particolarmente rigogliosa. Milano è una città dalle mille risorse, ricca di fermento soprattutto nel campo della moda e del design. ma purtroppo non della danza. Penso in generale che in Italia la danza non faccia tanto parte della cultura popolare. Non ricordo di essere cresciuto in una città o in un paese dove vedevo danza a ogni angolo e ho sempre considerato gli studi di danza milanesi abbastanza scarsi e mediocri. Al liceo avevo molte compagne di classe che studiavano danza, e attraverso la loro esperienza e racconti non mi sembrava che questa disciplina venisse presa molto sul serio. Ma forse mi sbaglio. A New York la situazione è ben diversa. I ballerini sono dappertutto. Tutti i più grandi danzatori del mondo, anche se per brevi periodi, sono passati da qui. A New York hanno studiato, imparato, creato, ballato e lasciato una traccia. A New York la danza è nelle scuole, nelle istituzioni, per le strade. È qui che si sono formate le più grandi scuole di pensiero della danza moderna, postmoderna e contemporanea che si sono poi diramate e diffuse in tutto il mondo”.
Cinque luoghi a New York dove apprezzare e venire a contatto con il mondo della danza.
“Uno: Lincoln Center. È un’isituzione di fama internazionale, tempio sacro della musica e delle arti performative. È un complesso di dodici edifici, tra cui hanno sede il New York City Ballet, la School of American Ballet, il Lincoln Center for the Performing Arts, e la Juilliard School. Due: Joyce Theater. Durante tutto l’anno il programma del teatro offre solo spettacoli di danza. È al Joyce che si possono vedere produzioni di compagnie del calibro di Limon, Martha Graham, Netherland Dance Theater, Stephen Petronio, Trisha Brown, Parsons ecc… Tre: BAM (Brooklyn Academy of Music). È uno dei miei teatri preferiti a New York. Il BAM offre spettacoli di teatro, musica, opera, danza. Il programma di danza offerto dal BAM è ottimo. È al Bam che ho visto Pina Bausch, Batsheva, Sasha Waltz, Sankai Juku, Mark Morris. Quattro: Steps on Broadway. È uno dei centri di di danza più importanti della città. Le lezioni di danza sono tenute da insegnanti e coreografi importanti e molto noti tra gli esperti del settore. Steps on Broadway è dove la maggior parte dei ballerini professionisti della città si reca per tenersi in forma e fare la quotidiana lezione di balletto classico. Cinque: Peridance. È un altro centro di danza importante. Offre lezioni di tutti i tipi”.
Tre film importanti che meglio di altri raccontano la danza
“In the Steps of Trisha Brown di Marie-Hélène Rebois, Mr. Gaga di Tomer Heymann, Pina di Wim Wenders. Tutti e tre questi film raccontano la storia e la poetica di un direttore artistico che ha rivoluzionato l’idea di danza. Attraverso questi film si ha la possibilità di capire nel dettaglio chi e cosa succede quando un genio creativo decide di mettere la propria vita a servizio di questa forma d’arte. Trisha Brown, Pina Bausch e Ohad Naharin (ciascuno di loro con un approccio diverso) hanno fatto della danza la propria ragione di vita, tutti e tre hanno fondato un metodo, una scuola di pensiero, hanno sviluppato un proprio vocabolario corporeo che ha poi influenzato il modo di ballare di generazioni di danzatori e nel quale il grande pubblico è riuscito a identificarsi. Non c’è modo migliore di raccontare la danza se non attraverso la storia ed esperienza di chi la danza l’ha creata e teorizzata. Ho apprezzato molto il documentario In the Steps of Trisha Brown perché mi ha fatto riflettere sulle difficoltà di trasmissione del repertorio danzato. Trisha Brown ha elaborato un metodo e l’ha insegnato a coloro che con lei e per lei hanno danzato. Quando un giorno la Brown non ci sarà più il suo repertorio, che è scritto e registrato su materiale audio visivo, verrà sicuramente portato avanti dalle generazioni future. L’aspetto interessante però è che non tutto ciò che fa parte di un metodo si può trascrivere o è visibile in video. Ci sono delle informazioni invisibili che Trisha ha impresso nelle proprie ossa e che non sono visibili ad occhio nudo. Informazioni che non si possono spiegare a parole, ma che si possono soltanto interiorizzare studiando per anni con la fonte originaria che le ha elaborate. Il rischio è che col passare delle generazioni queste informazioni vadano perdute. Trovo questo aspetto della danza molto interessante”.
New York, la città dove vivi. Quali sono i luoghi dove ami rifugiarti?

“Red Hook. È una zona di Brooklyn non molto facile da raggiungere coi mezzi pubblici (io per fortuna ci vivo molto vicino), da cui si ha una visuale perfetta della statua della libertà. La si può raggiungere in autobus ma non in metropolitana. È un posto con delle energie molto particolari, sembra quasi una piccola città di mare dimenticata dal mondo. Dal punto di vista architettonico il paesaggio è principalmente industriale. Fabbriche e loft si affacciano sull’acqua, contrastate da qualche viuzza col pergolato e casette a schiera dai colori pastello. I pali della luce in legno grezzo sono unificati da una miriade di fili elettrici neri che si intrecciano tra loro in un reticolo fittissimo. I gabbiani, il suono delle onde, l’aria di mare, i moli, qualche pescatore, la desolazione, i community gardens, la pace dei sensi. Questo è Red Hook. Un posto poco battuto dal turismo e dalla fauna cittadina dove rifugiarsi quando si ha bisogno di fuggire il caos della giungla urbana. Poi anche Coney Island (ma solo fuori stagione, ossia in autunno e inverno). Coney Island si trova nella punta estrema sud di Brooklyn e in quanto a energie somiglia molto a Red Hook, soprattutto nei pomeriggi di inverno. Se Red Hook si affaccia su quello che ancora può essere chiamato fiume, Coney Island si affaccia sull’oceano aperto. Anche qui l’atmosfera è molto malinconica ma rigenerante. L’oceano, la grande spiaggia deserta, il Luna Park dai mille colori fuori servizio quando si è in bassa stagione, qualche russo di New York che passeggia sul lungomare. Non vado spesso a Coney Island perché è abbastanza distante, ma ogni volta che mi ci ritrovo, mi prometto di doverci andare più spesso. Infine un piccolo bistrot italiano, con personale italiano, a pochi blocchi da casa mia. Nel weekend a colazione hanno le brioches alla marmellata di albicocca, uguali a quelle della pasticceria Cucchi di Milano, di cui sono un grande fan. Mi rifugio in questo posto quando mi manca casa”.
Milano invece, dicono stia vivendo un rinascimento culturale. Senti di poter condividere questo pensiero?
“Assolutamente. Quando mi sono trasferito a New York nel 2011, mi lasciavo alle spalle una Milano che non mi dava più tanti stimoli. Poi qualcosa è successo. Milano è cambiata, Milano è rinata. È già da due anni ormai che i miei amici di una vita, persone con cui sono cresciuto e che hanno sempre condiviso il mio punto di vista sulla città, mi dicono che a Milano si respira un’aria nuova. Alcuni di loro addirittura mi incitano a tornarci a vivere. Quando torno a casa (due o tre volte l’anno) trovo una città dalle belle energie. Hanno aperto un sacco di posti nuovi tra cui musei e spazi culturali (vedi la Fondazione Prada), molte zone della città sono state riportate in vita tramite progetti di rivalutazione urbana (la Darsena), ci sono tutta una serie di iniziative ed eventi che fanno di Milano una vera e propria capitale europea. Per le strade si vedono più giovani e in generale si respira un clima internazionale”.
Milano e New York: cosa hanno in comune ?
“In scala diversa sono entrambe due città dinamiche. Sono città dove c’è un certo tipo di fermento artistico e culturale, dove la gente si reca per realizzare un sogno o un progetto di vita ambizioso. Milano non ha la diversità culturale e le dimensioni fisiche (e mentali) di New York. Tuttavia mi capita spesso di parlare dell’Italia con americani di New York che l’hanno visitata e che mi dicono che Roma, Firenze e Venezia sono città molto belle da un punto di vista architettonico, sono città emblema dell’italianità; Milano invece è meno bella, ma a Milano ci vivrebbero proprio perché in qualche modo somiglia a New York. A livello architettonico Milano è molto diversa da New York (sebbene certe volte alcune strade dell’Upper East Side mi ricordano Milano), queste persone si riferiscano più alle energie, a uno stile di vita, e a uno specifico stato della mente che si ha quando si vive in città come queste. È proprio in questo stato della mente che Milano e New York un pò si assomigliano.
Angelo, qual’è il tuo progetto più ambizioso?
“Il mio obiettivo è quello di continuare a lavorare per le compagnie di danza della città di New York. Mi piacerebbe espandere i miei orizzonti e vedere quali possibilità si possono aprire in Europa, in particolare in Germania e Olanda. Il mio desiderio è quello di poter girare un giorno un lungometraggio muto dove il movimento e la danza siano l’unico motore narrativo del film. Un progetto ambizioso che potrei realizzare soltanto con l’aiuto di un coreografo di grande talento”.