Jonathan Galassi, presidente ed editore della newyorchese Farrar, Strauss e Giroux, racconta nel suo primo romanzo, Muse (pubblicato in Italia da Guanda col titolo La Musa), il fascino e le difficoltà di un tempo straordinario e ormai lontano del mondo dell’editoria. Lo abbiamo intervistato.
Riferendosi ai lettori, lei accenna a «pochi fortunati» per i quali «la letteratura era vita»; quale spazio occupa oggi la letteratura? Che valore e che incidenza ha ancora la parola scritta, se perfino il vicepresidente di Amazon sostiene di utilizzare le immagini per illustrare le sue idee, poiché «scrivere è la vecchia maniera»?
Fino a quando dovrà parlare delle foto sarà costretto a utilizzare delle parole e, quindi, a ricorrere alla scrittura. Scrivere è l’unico modo che abbiamo per comunicare idee complesse, sentimenti ambigui, strutture contraddittorie della mente. La letteratura rimarrà un’attività essenziale – ma forse non così centrale come percepita dai protagonisti delle memorie/satira che è La Musa.
«Impiegati che sgobbano, pagati pochissimo, per il privilegio di toccare la Grandezza», rivalità tra le case editrici, sessismo, autori egocentrici, capi dispotici e perfidi agenti: è tuttora così o le dinamiche di potere nell’ambiente letterario sono in qualche modo mutate?
Il romanzo descrive, con una sorta di umorismo britannico, la lontana “archeologia” di un periodo ormai storico. L’editoria di oggi è un’attività più aziendale che nei giorni de La Musa; come, forse, per tutte le iniziative culturali, è meno legata alla personalità, meno definita dalle eccentricità dei suoi leader, similmente ad altre attività economiche. Il che ha sia i suoi pro, che i suoi contro.
Paul, il suo protagonista, ritiene che un editore debba indirizzare, più che inseguire, i gusti del pubblico: ad oggi, qual è l’atteggiamento prevalente all’interno delle case editrici?
Ci sono sempre stati due generi di approccio a questa domanda, come racconta il libro: tentare di soddisfare un gusto pubblico già definito, o cercare di formarlo o influenzarlo. La maggior parte delle società commerciali è incentivata da forze che richiedono “qualcos’altro della stessa cosa”. Le vere novità non hanno mercato, perché il mercato non è stato ancora creato.
Per quali scrittori sente l’ammirazione che Paul prova per Ida Perkins? E quali sono le scoperte di cui è più orgoglioso?
L’amore di Paul per Ida è una specie di idolatria estrema che soltanto un individuo giovane e senza un’autentica esperienza del mondo può provare. Quando ero molto giovane i grandi poeti del tempo erano come dei per me. Più in là, ho avuto l’opportunità di conoscerne molti, e sono divenuti per me delle persone in carne e ossa, anche se pur sempre di grande talento. La scoperta di Paul del lato umano degli autori che ammira rappresenta una grande – e, in parte, deludente- lezione di vita.
Ho avuto il privilegio di lavorare sulle opere di autori come Franzen, Eugenides, Lydia Davis, August Kleinzahler, Alice McDermott e altri quando erano molto giovani, e poi di continuare a seguirli nel corso delle loro carriere.
Il suo protagonista è insofferente agli e-reader e alla «rapace libreria online». Qual è la sua opinione sull’e-commerce? Cosa pensa della polemica intercorsa l’anno scorso tra Amazon e gli oltre novecento scrittori che, sulle pagine del New York Times, hanno lamentato le politiche dell’azienda?
Gli e-book sono semplicemente un altro modo di “distribuire un contenuto”. Hanno dato una sferzata di energia agli affari. Il problema è nel voler far credere al lettore, a chi acquista il libro, che un testo possa essere venduto come se fosse un paio di calzini. Un libro è il prodotto di un lavoro prodigioso e merita la giusta compensazione. Un gioiello non può e non deve essere a buon mercato. Mi riferisco a coloro che vogliono svalutare la proprietà intellettuale.
Lei descrive un mondo in cui «gli uomini erano uomini, le donne erano donne, i libri erano libri», in cui protagonisti erano la creatività, il talento e l’unicità degli scrittori: come è cambiato quel mondo? Cosa c’è, oggi, al centro dell’editoria e quali sono i fattori che determinano maggiormente un successo editoriale?
L’editoria di oggi è, forse, un’attività alla ricerca di un polo centrale, di una ragion d’essere. Esistono tuttora grandi scrittori, e si scrivono grandi libri. Ma il sistema nel quale questi lavori venivano una volta accolti è stato sostituito da qualcosa di molto più ampio, e meno articolato. I libri rappresentano un’altra forma di intrattenimento, non sono più percepiti come l’essenza della cultura – anche se, di fatto, lo rimangono. Devono lottare per essere visti, per essere notati, in competizione con i media visivi, come il gran capo di Amazon suggerisce. Questo li mette in svantaggio. Devono riuscire a fare un genere speciale di scalpore. Alcuni ci riescono meglio di altri.
In un bellissimo discorso tenuto alla cerimonia per gli Whiting Awards nel 2012 Jeffrey Eugenides ricordava ai giovani scrittori i consigli della scrittrice Nadine Gordimer: «Una persona seria dovrebbe cercare di scrivere in modo postumo»; il premio Nobel si riferiva ad alcune delle sfide più grandi che un autore deve affrontare con se stesso: la tentazione di autocensurarsi, di assoggettarsi alle mode o al mercato, di seguire le folle o la seduzione del guadagno. Secondo lei, dove si dovrebbero attingere forza e motivazione per restare fedeli a se stessi ed esprimersi nella più assoluta libertà?
Alla fine c’è soltanto una cosa che conta, per la scrittura così come per tutto il resto: fare del proprio meglio, creare qualcosa che sia il risultato dei propri più profondi e autentici sforzi – qualcosa di cui si possa essere orgogliosi, sapendo di aver dato il massimo in assoluto. Come uno scrittore mi ha detto oggi a pranzo, la scrittura è una faccenda interamente privata. Cosa le accada poi nel mondo è semplicemente secondario. Credo che Gordimer intendesse questo nel dire che alla fine, “dopo la morte”, ciò che conta è la differenza che si fa, il segno che si lascia – anche se vago e indistinto.