Ha appena preso servizio e dice di non avere un “programma e una lista di cose da fare” ma di idee su come promuovere la cultura italiana sembra averne diverse. Il nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, Giorgio van Straten, ha preso possesso della sua scrivania al terzo piano della palazzina di Park Avenue a metà luglio e ha subito cominciato a incontrare coloro che la cultura italiana la fanno, da questa parte dell’Atlantico.
Scrittore di romanzi e saggistica, traduttore, vincitore di vari premi, tra cui lo Zerilli-Marimò, van Straten si è occupato di storia, ebraismo, giornalismo e mezzi di comunicazione, musica, teatro, arte. Nato a Firenze nel 1955, ha il sorriso e l’entusiasmo di chi si diverte e fare il proprio lavoro e sembra avere spirito e curiosità giusti per la Grande Mela.
Arriva in un Istituto che, rimasto senza direttore per un anno e mezzo (periodo durante il quale è stato il Consolato a farsi carico delle attività dell’Istituto), ha di certo del tempo da recuperare. E da recuperare c’è anche un divario tra culture, tra passato e presente, tra dentro e fuori: la cultura italiana vive un momento di estrema popolarità negli Stati Uniti, ma non sempre le istituzioni italiane sono state in grado di arrivare alle orecchie di chi era pronto ad ascoltare.
Per capire chi è e che idee porta il nuovo direttore, siamo andati a incontrarlo nel suo ufficio.
Con che idea di cultura arriva a New York Giorgio van Straten? Quale la cultura italiana che vuole promuovere?
“Credo che la cultura italiana abbia già una sua forza e una sua immagine nel mondo e in particolare a New York, città in cui l’Italia e la sua cultura mi sembra siano molto amate. La cultura è un po’ tante cose: anche moda, cibo, design, eccetera. Però l’asse portante della cultura di un paese è rappresentato dalle opere d’arte, da quello che si è prodotto in passato e quello che si continua a produrre. E aggiungo anche dalla sua lingua che a volte viene invece sottovalutata, perché tanto la cultura italiana è amata, tanto la lingua italiana è poco parlata e conosciuta”.
Ha detto “quello che si è prodotto e quello che si continua a produrre”. A questo riguardo, a volte si ha la sensazione che nel promuovere la cultura italiana si spinga il passato ma si dimentichi il presente. A suo avviso c’è il rischio che la ricchezza del nostro passato possa danneggiare o mettere in ombra il presente?
“Questo rischio esiste. Abbiamo una tale forza della cultura del passato che non è tanto che la spingiamo di più, è che si promuove da sé. In alcuni secoli la nostra è stata la cultura dominante a livello mondiale e quindi è ovvio che quando uno dice Italia si pensi, per esempio, al Rinascimento. Che questo possa offuscare la cultura contemporanea italiana è un rischio oggettivo. Ma penso anche che questo sia un motivo in più per promuovere la cultura italiana contemporanea. Perché è utile promuovere tutta la cultura, ma più di tutto ha senso lavorare su quella che ha bisogno di sostegno. Da questo punto di vista, al di là della qualità della cultura che si fa oggi in Italia, c’è da dire che la nostra produzione culturale avviene in un mercato che oggi è più marginale di quanto non fosse quando la cultura italiana era dominante, quindi la difficoltà di affermare quella cultura è dovuta anche alla debolezza del mercato in cui quella cultura nasce”.
Quindi risentiamo di un problema che da una parte è connaturato all’economia italiana e dall’altra è conseguenza del mercato globalizzato…
“Credo sia soprattutto relativo ad un mercato globale in cui paesi come gli Stati Uniti hanno una tale forza che affermare la loro cultura contemporanea è ovviamente molto più semplice. Questo vale anche per alcuni paesi emergenti: la fortuna che l’arte cinese sta conoscendo è dovuta anche al fatto che la Cina è un mercato di collezionisti d’arte e quindi i suoi artisti hanno spazi di affermazione nel mercato. Quello italiano è un mercato piccolo e marginale nel contesto del mercato mondiale. Quindi un artista fa più fatica”.
Forse c’è anche una scarsa propensione a investire in cultura, anche da parte dei privati?
“Sì, forse c’è anche questo, ma è anche vero che ci sono meno risorse”.
Quindi culturalmente paghiamo la nostra generale debolezza economica?
“Sì, perché diventa una debolezza della capacità di investimento nella cultura da parte dell’intero sistema paese”.
A questo proposito, si dice spesso che, rispetto ad altre nazioni come Francia, Germania e Spagna, l’Italia non supporta adeguatamente (anche e soprattutto economicamente) la cultura italiana all’estero. È d’accordo e se sì perché questo accade, a suo avviso? Qual è il problema?
“Per la verità il mio Istituto sta accanto ad un istituto culturale spagnolo che è chiuso: la palazzina è in vendita. Ma al di là di questo, è un dato di fatto che, per esempio, la Francia investe di più: è un fatto di tradizione, di organizzazione dello stato, di distribuzione delle risorse, ed è difficile che questo possa cambiare in periodi di crisi. Magari in periodi di espansione… ma in momenti in cui si taglia è difficile incrementare la cultura rispetto ad altri settori che nella vita quotidiana delle persone pesano molto di più. Poi, per quanto riguarda il passato, credo ci sia stata un po’ di pigrizia da parte di tutti noi, perché abbiamo una tale forza delle nostre risorse culturali che ci sembrava che si promuovessero da sole. Un po’ come il turismo: a lungo si è pensato che l’Italia è così bella che non c’è bisogno di promuoverla, ma poi si è visto che non è stato così e che altri paesi, pur avendo situazioni non paragonabili a quelle italiane, riescono a recuperare in attenzione”.
Ma la cultura non può diventare anche uno strumento per uscire dalla crisi?
“La cultura è certamente una risorsa e in un paese come l’Italia è una risorsa centrale. Può essere anche occasione di sviluppo, in termini di nuove tecnologie, perché ai beni culturali si possono applicare tecnologie all’avanguardia, come avviene per esempio nel restauro. Mi sembra che, almeno a livello di dichiarazioni, su questo aspetto si stia andando nella direzione giusta. Non siamo più ai tempi in cui si diceva che con la cultura non si mangia”.
Lei è, prima di tutto, uno scrittore, quindi non posso non farle una domanda sui libri: l’editoria italiana fa fatica a imporsi all’estero e, negli USA in particolare, i nuovi libri italiani in traduzione si contano sulle dita di una mano. Ritiene che questa situazione si possa correggere? Ha in mente azioni specifiche in questo ambito?
“Ci sono dei settori – e uno è la letteratura, un altro è, per esempio, il teatro – in cui paghiamo la marginalità della lingua italiana. Se nel mondo ci sono centinaia di milioni di persone che parlano una lingua, ovviamente questo favorisce la diffusione della letteratura in quella lingua e poi, di conseguenza, anche delle traduzioni. Detto questo, penso che ci potrebbero essere incentivi alle traduzioni maggiori di quelli attuali, che vedo che con altre nazioni hanno un effetto positivo. Poi c’è da dire che gli Stati Uniti in particolare non mi sembrano un paese che consuma tantissima narrativa straniera. Quindi secondo me c’è un doppio effetto negativo”.
Quindi ci diamo per vinti?
Per vinti non ci si dà mai… Alcuni casi recenti come quello della Ferrante mi sembra siano in assoluta controtendenza, però c’è una difficoltà con elementi oggettivi.
Parlando di lingua, spesso si dice che la lingua italiana è sotto attacco, schiacciata da lingue geopoliticamente più “forti”. Come si pone lei rispetto alla questione del “protezionismo” linguistico?

Il direttore discute le attivit├á dell’Istituto con i colleghi, in uno dei primi giorni di lavoro
“Una legge come quella francese, per cui bisogna tradurre tutte le parole, non credo che la farei, perché mi sembra che, dall’interazione con l’altro, le lingue escano rafforzate e non indebolite. Ci sono tantissime parole che sono diventate italiane e che vengono da altre lingue. Bisognerebbe anche evitare però forme di provincialismo al contrario: a volte, soprattutto nell’ambito dell’economia, sento usare termini inglesi a profusione, anche quando esiste un perfetto equivalente in italiano. Non credo tanto nella difesa e nella protezione della lingua, ma ritengo non si debba cadere in forme di subalternità. Per esempio, io trovo che non sia affatto obbligatorio che l’Istituto di Cultura faccia tutte le iniziative in inglese. Se invito uno scrittore italiano, che lavora con una lingua che è l’italiano, non capisco perché gli si debba chiedere di parlare in un’altra. Poi magari invece se chiamo un designer che passa le sue giornate a lavorare con l’inglese, allora magari fa una conferenza in inglese e va benissimo. È la subalternità che a me non piace. Penso che la lingua è una parte della nostra cultura e quindi devo difendere anche la lingua. Tra l’altro la nostra lingua ha un suo fascino, l’italiano ha una sua bellezza riconosciuta da molti, si dice sia la lingua della seduzione, è sicuramente una lingua di cultura…”.
C’è stato un recente caso di un’università italiana che ha scelto di fare dei corsi di laurea solo in inglese. Questo le sembra un caso di subalternità?
“È sempre una questione di equilibrio, una qualità in cui noi italiani spesso non brilliamo: passiamo da un passato in cui le lingue straniere non si insegnavano affatto a casi come questo. Trovo che in alcuni ambiti in cui l’inglese è molto presente, come i settori tecnico-scientifici, studiare anche in inglese e conoscere bene questa lingua sia importante. Ma scegliere di insegnare solamente in inglese, mi sembra, sì, una forma di subalternità”.
Sulla lingua italiana all’estero si alternano notizie di varia natura. Secondo alcuni dati l’italiano sarebbe la quarta lingua più studiata al mondo, mentre c’è chi lancia l’allarme facendo notare che l’italiano è sempre meno studiato nelle scuole del mondo. Pensa sia necessario rafforzare l’italiano all’estero?
“I dati sono differenti a seconda delle situazioni: ci sono paesi in cui l’italiano si è fortemente ridimensionato a favore di lingue ritenute professionalmente più utili, ma in altri paesi l’italiano invece va bene. Gli Stati Uniti sono uno di questi: sono il terzo paese al mondo per lo studio della lingua italiana dopo Germania e Australia e quello in cui questo avviene a livelli più alti di scolarità. Poi, certo, aumenta la concorrenza di altre lingue e questo incide. Credo che lo studio della lingua italiana vada incrementato in tutti i modi possibili e soprattutto stabilendo un legame più forte tra conoscenza della lingua e conoscenza della cultura. Si possono fare tante cose, dai lettorati ai finanziamenti alle università, alla promozione dei corsi. Io vorrei aumentare i corsi di lingua qui all’Istituto, farli emergere dal basement e farli arrivare anche negli altri spazi dell’Istituto. Tra l’altro i corsi di lingua sono anche un modo per vivacizzare i rapporti con la città, avvicinare i giovani e pubblici diversi. Ciò si inserisce nella mia idea generale di come portare avanti l’istituto che secondo me non deve diventare una roccaforte: la cultura si promuove anche fuori dall’Istituto e in molti modi diversi; interagendo con altri soggetti e portando iniziative in altri luoghi della città: più sono le occasioni meglio è. E in questa città ci sono tantissimi soggetti che si occupano di lingua e cultura italiane e io non li vedo come concorrenti, sono tutti alleati”.
Diceva che spesso all’italiano vengono preferite lingue più professionalmente utili. Ma non è possibile promuovere l’idea dell’italiano non solo come lingua della cultura alta ma anche come lingua del business, una lingua utile nel mondo del lavoro?
“Anche nell’ambito della cultura alta c’è lavoro. Penso per esempio a settori in cui la presenza dell’italiano è fondamentale come nell’ambito della musica lirica o anche nel restauro: in questi settori conoscere l’italiano è certamente un vantaggio professionale. Ma poi bisogna dire che l’Italia è un grande paese esportatore e la conoscenza della lingua permette di stabilire rapporti di lavoro con una serie di imprese, per esempio nell’industria del lusso, della moda, dei gioielli, del cibo, del vino. È vero che l’Italia è un paese piccolo e la lingua non siamo in tantissimi a parlarla, ma gli italiani vanno in giro e lavorano in tutto il mondo. Tra l’altro io ritengo che è sbagliato parlare di fuga di cervelli perché questo nostro andare in giro ci permette di conoscere. Certo, se poi chi va all’estero torna è meglio ma, se anche non torna, comunque porta l’Italia in giro per il mondo e questo mi sembra molto positivo”.
Sotto la sua direzione l’Istituto cercherà di valorizzare queste intersezioni con settori non tradizionalmente riconosciuti come parte della Cultura?
“Non sono arrivato qui con un programma scritto e un elenco di cose da fare, anche se alcune idee per l’autunno ce le ho. Sono venuto con l’idea che un’attività si costruisce sulle relazioni e sulle reti con gli altri. Questo include l’interazione con tutto quello che è Italia e in qualche modo afferma la nostra immagine. Certo, l’Italia ha tanti problemi, ma in tanti settori ha vinto: per esempio nel cibo. Quando vedo tutti quei prodotti che imitano i prodotti italiani, come il famoso parmesan cheese, mi sembra anche un segnale positivo, significa che abbiamo vinto noi, perché tutti ci imitano; nel cibo, nella moda, nel lusso. Magari noi non abbiamo strutture enormi, ma abbiamo imprese che fanno prodotti di qualità. E i nostri prodotti sono figli di una storia, di un paesaggio, di una architettura, di una lingua; in una parola: della cultura italiana. E tutto questo fa la qualità del prodotto, anche di quelli industriali”.
Quali sono le idee per l’autunno cui accennava? Può darci qualche anticipazione?
“Non voglio anticipare niente in modo troppo esplicito perché prima vorrei esserne sicuro. Dico solo che mi piacerebbe arrivare qui portando qualcosa in dote e, siccome sono i 750 anni della nascita di Dante e io sono fiorentino, mi piacerebbe portare qualcosa che abbia a che fare con questo”.
Negli Stati Uniti la cultura italiana è rappresentata anche, in una certa misura, dalla cultura italoamericana. Ma molti italoamericani lamentano la scarsa conoscenza e scarsa attenzione dell’Italia nei confronti della produzione culturale, e soprattuto letteraria, italoamericana. A suo avviso questi due mondi sono e devono restare separati o bisognerebbe “riportare a casa” la cultura italoamericana?
“Probabilmente l’Italia in generale sottovaluta la ricchezza culturale delle proprie comunità all’estero: c’è un’attenzione insufficiente rispetto a questo mondo. Non credo tuttavia sia il mio compito promuoverlo verso il paese di origine. Ma se fosse in mio potere, certamente farei qualcosa perché ci fosse una maggiore attenzione nei confronti della cultura italoamericana, al di fuori degli stereotipi, che poi si riverberano anche sull’Italia. Ma il mio compito qui è un altro: io credo di dover promuovere la cultura italiana, anche insieme alle comunità italoamericane, ma verso gli americani, non verso gli italiani. Tutti insieme, le strutture dello Stato, gli itaoamericani di antica emigrazione, gli italiani di prima generazione, tutti i giovani che stanno qui e che spesso sono un mondo completamente separato dagli italoamericani, tutti quanti insieme possiamo promuovere la cultura italiana. Ma non credo che l’Istituto debba aggregare queste persone con le iniziative che facciamo perché noi dobbiamo parlare soprattuto a chi non ha un legame di origine con l’Italia, ma magari la ama o è comunque ben predisposto verso la nostra cultura”.
Una domanda più biografica: lei è di famiglia ebraica olandese. So che ha raccontato la sua storia in un libro che ha anche vinto un premio a New York, ma devo ammettere di non averlo letto. Immagino non sia una storia adatta alla sintesi, ma ci può dire brevemente come e perché la sua famiglia arrivò in Italia?
“Arrivò in Italia mio nonno che lavorava in una società di assicurazione sul trasporto merci, una multinazionale con sede in Svizzera. A inizio Novecento, lo mandarono a lavorare al porto di Genova che era un porto importante per il trasporto merci. Mio padre quindi nacque in Italia, ma mantenne la cittadinanza olandese, anche perché la famiglia, per via delle origini ebraiche, durante la guerra ebbe problemi. Tanto che mio nonno, insieme alle sue due figlie femmine e rispettivi mariti e figli, se ne venne a New York, nel 1940, quando l’Italia entrò in guerra. Stavano a Spencertown, un paesino piccolo piccolo nel Nord dello stato di New York. Dopo la guerra mio nonno tornò in Italia e con lui tornò una delle figlie, mentre l’altra rimase qui. Quindi ho anche un pezzo di famiglia da queste parti”.
Quindi una storia di emigrazione. Ritiene che questo background la possa avvicinare alle comunità di espatriati italiani in America?
“Io penso che al di là dei problemi che ci possono essere, soprattutto in periodi di crisi, le migrazioni e il mescolamento delle culture siano una ricchezza. L’incontro, non delle razze, che non esistono, ma delle etnie, è un arricchimento, è una bellissima risorsa. Io sono assolutamente felice di essere qua, cominciare una nuova vita a sessant’anni invece di andare in pensione è una cosa fantastica e abitare e lavorare per un periodo in un altro paese è sempre stato uno dei miei sogni”.