Che l’eredità di un padre che ha inventato la commedia all’italiana la si voglia onorare o dissacrare o fare entrambe le cose, il modo per farlo è uno solo: la risata. Cristina Comencini, figlia del Luigi che firmò Pane, amore e fantasia, nel suo ultimo film fa i conti con un passato che è quello della sua biografia ma anche quello collettivo di un paese che troppo spesso trasforma le sue glorie in prigioni.
Latin Lover, presentato in questi giorni a New York per la rassegna Open Roads, è un film che, con un cast internazionale d’eccellenza, racconta di un gruppo di donne, ex mogli e figlie di un divo del cinema rubacuori e viveur che, anche da morto, continua a tenere le redini dei cuori delle donne che in vita aveva fatto sospirare. Tra amore e odio, seduzione e abbandoni, passione e leggerezza, le sette donne protagoniste del film si trovano fare i conti con la figura di quest’uomo mitologico che ha segnato la vita di ognuna di loro. Capire lui sarà un modo per capire se stesse e dare vita a una sorellanza che non ha nulla a che fare con gli uomini.
Pur avendo creato un personaggio ben diverso da quello del padre Luigi, Cristina Comencini ammette il legame autobiografico, non soltanto per il mito del padre ma per l’ingombrante mito della grande stagione del cinema italiano che viene raccontato, fin dalle prime immagini del film, con ironia e profondo affetto.
Il tuo film è più un omaggio al grande cinema italiano del passato o più un modo per dare un addio senza nostalgia a quella pagina della nostra storia che è, in qualche modo, anche un fardello?
È esattamente tutt’e due. Siamo figli di quel cinema ma quel cinema ci dà l’indicazione di liberarci. Perché loro erano uomini e donne liberi. Dunque, tanto più capiamo il senso di quello che hanno fatto, tanto più noi oggi siamo liberi d fare la nostra storia. Le due cose sono collegate e il film vuole dire proprio questo: c’è la grandezza, sullo schermo, di quei personaggi, ma allo stesso tempo c’è il piccolo e il venir fuori di altri personaggi, di queste donne ambivalenti e difficili. È tutto un cinema fatto anche di piccole cose, come il piedino dietro la roccia che deve ancora essere raccontato [il riferimento è ad una scena del film in cui una delle figlie mostra al suo compagno un’immagine di lei, bambina, nascosta sul set durante le riprese di un film di suo padre].
Parli di liberarci. Il film sembra avere due movimenti paralleli di liberazione: da un lato c’è questa liberazione dal fardello del cinema del passato, dall’altro c’è la liberazione delle donne, rispetto alla figura dell’uomo e del padre. Ritieni che sia un processo che ogni donna dovrebbe fare o è un qualcosa che riguarda la nostra cultura in modo particolare?
Nel mondo sta avvenendo una rivoluzione, le donne stanno crescendo dovunque e in Italia stiamo vivendo un momento importante. Certo, più al Nord che al Sud, ma alcune cose stanno venendo fuori. Credo però che sia un’altra la cosa importante: la cultura che esprime questo attore che è raccontato nel film è la cultura dei padri, che è la nostra. È la cultura che abbiamo studiato a scuola e che il nostro cinema esprime. Siamo cresciuti con un cinema in cui c’erano quasi solo uomini e le donne erano figure secondarie. Non lo rifiutiamo perché quel cinema è la nostra storia, però oggi sappiamo che c’è un’altra parte, quella del silenzio delle donne, quello che non hanno raccontato e io credo che la grandezza oggi sia tenere tutte e due. La liberazione è nel capire che c’era quello ma adesso c’è tanto altro: raccontiamolo. Io uso sempre questa immagine: le donne vanno in giro con due bagagli, due valigie, una è la cultura del padre con cui sono cresciute e si sono formate; l’altra è il silenzio della madre, tutto quel mondo femminile di relazioni, di intelligenza, di filosofia, di pratica che devono ancora raccontare. E questa è una ricchezza. A volte questa duplicità può metterti in contraddizione, può sembrarti che le due cose lottino l’una contro l’altra, ma in realtà la grande ricchezza delle donne è avere due tradizioni e due culture.
È interessante che sia proprio tu a fare un film che da una parte è liberazione dal fardello del cinema e dall’altra è liberazione dalla figura del padre. Quanto c’è di autobiografico?
Questo film esprime liberazione ma anche attaccamento: le donne sentono quella cultura del padre come loro ma liberarsi significa esprimere anche noi stesse. E certo che c’è l’autobiografia: mio padre io l’ho amato in modo totale, ho lavorato per lui, ho scritto per lui. Era molto diverso dal latin lover del film, ha fatto una vita di monogamia assoluta, però anche con lui c’era questo elemento di inafferrabilità per via del suo lavoro: lui era nel cinema, era spesso fuori per lavoro, faceva parte di un mondo meraviglioso e magico. Poi venivano a casa gli sceneggiatori e io li sentivo parlare, sentivo le urla si Scarpelli, Flaiano, Suso. Insomma il sentimento di legame e la fascinazione sono fortissimi. Ma il fatto di dire che adesso però dobbiamo raccontare tante cose anche noi c’è nel film e c’è anche nella mia vita. Questo è l’elemento più autobiografico: il sentimento di attaccamento e al tempo stesso il desiderio, però, di fare altro.
Nel film c’è una meravigliosa Virna Lisi. Tu con lei avevi già lavorato, ma lavorarci in quello che si sarebbe rivelato il suo ultimo film, che esperienza è stata? Puoi condividere con noi qualche ricordo?
“La cosa incredibile è che lei era quella che stava meglio sul set. Marisa [Paredes] ha avuto dei momenti in cui si sentiva stanca… lei invece era una colonna, per cui ho una visione stranissima: da un lato un ricordo di questa grande energia, di una persona che stava benissimo. Lei non aveva idea di stare male e mai come in questo film, secondo me, si è liberata, soprattutto in quella scena del salotto: lei lì parla anche di sé, parla della vita dell’attrice, della rinuncia, si ubriaca, si libera, davvero. Quello è un momento di grande felicità. Però poi c’è la mancanza, il fatto di non averle potuto far vedere il film. Lei, fino all’ultimo, anche quando poi sapeva di stare male, mi faceva chiamare dall’agente perché non mi poteva chiamare lei perché, appunto, stava male e l’agente mi diceva: avvisaci subito se ci sono delle cose da fare di doppiaggio perché lei le vuole fare. E poi la cosa struggente è che quando è morta ha detto al figlio: chiama Cristina per prima”.
Non l’ha visto il film finito?
“No, non l’ha visto. O forse l’ha visto… che ne sappiamo… Forse lo sa. Tutto questo lo sa”.
Eh, magari… Passando ad altro, mi incuriosisce il personaggio della figlia americana che sembra posizionarsi un po’ ai margini del quadro, come fosse un po’ un outsider.
“Intanto notavo che, nei miei due film più riusciti, questo e La bestia nel cuore, c’è l’America. L’America come un altrove lontano. Noi sappiamo tutto di noi, ma gli americani ci vedono strani, non sanno quasi nulla di noi. E questo mi affascina. Ne La bestia nel cuore c’era il fratello che non vuole sapere, che va a sposarsi in America, va via. E qui c’è questo fungo di questa ragazza fantastica che non ha mai conosciuto il padre ed è però la più libera. Dice che in America il padre non lo conosce più nessuno: tutto è relativo. La distanza mi dà la sensazione della relatività e l’America è vicina e lontana al tempo stesso. Vicina perché c’è una vicinanza tra il cinema italiano e quello americano che si amano a vicenda. E allo stesso tempo mi sembra un modo per allontanarsi da chi ti conosce da sempre. Penso che un po’ tutti quelli che vengono a vivere qua hanno questo desiderio di andarsene dal noto e da dove sei noto”.
Interessante anche che la figlia americana poi dica di aver avuto successo come musicista negli States con i pezzi italo-americani…
Sì, perché poi qualcosa delle origini te lo porti sempre dietro, però sei più libera. Lei è, tra tutte loro, la più libera.
Non sei nuova al pubblico americano. Cosa te ne sembra? Come ti sembra che reagiscano al cinema italiano contemporaneo?
ÔÇïIo ho avuto due esperienze: quella con La bestia nel cuore che è stato presentato a Los Angeles perché era nominato all’Oscar e l’hanno adorato, le persone capivano tutto del film; e poi questa esperienza a New York e, alla prima proiezione del film, la gente in sala ha iniziato a ridere subito, fin dalle prime inquadrature che citano i film del passato e mostrano le figlie. Quindi ho la sensazione che noi qui siamo amati e capiti, tantissimo. Ovviamente New York è New York e non è l’America. Però mi sembra ci sia un grande legame che io avevo sentito anche quando ero a Los Angeles.
Ti sembra però che il cinema italiano, per essere capito e amato, debba conformarsi a un certo stile, a un certo linguaggio o no?
Beh, mi pare che più siamo italiani più ci amano… a volte hanno amato anche degli stereotipi. La cosa particolare della candidatura all’Oscar de La bestia del cuore era proprio che era un film che non vaeva niente di italiano, era un film contemporaneo… Anche un film come quello di Paolo [Sorrentino] ha Roma, ha richiami felliniani e queste sono cose che loro adorano…
Nel tuo film le figlie dicono che nelle interviste tutti chiedono loro del padre e immagino che succeda anche a te, sarai abituata e quindi mi perdonerai se lo faccio anche io. Come il tuo cinema si inserisce nella scia di quello di tuo padre e in cosa se ne distanzia?
Anche questo è nel film. La vicinanza è data dall’ironia. La cosa che mi piace del cinema di papa è questa alternanza tra sentimenti e ironia. Ho cercato di fare un film che non è solo una commedia ma ha anche momenti profondi. La differenza è che io ho portato le donne nel cinema. Ho affiancato alle storie degli uomini quelle delle donne. No che papà non abbia fatto film con dei personaggi femminili anche molto belli, ma nella mia filmografia i caratteri di donne sono molto forti e presenti.
Parlando di donne, tu sei anche impegnata per i diritti delle donne. Come ti sembra la situazione italiana? Quali sono a tuo avviso i principali ostacoli ad una reale parità?
Non credo sia solo questione di diritti e di parità. Credo che l’Italia abbia fatto passi da gigante anche dopo il 13 febbraio 2011 quando facemmo quell’enorme manifestazione: il Governo è al 50 per cento, in Parlamento c’è il 30, in certi casi più dell’America. Ma la cosa più importante è portare nel mondo la nostra diversità. Io non penso che abbiamo fatto tutto questo per essere omologate agli uomini: non è sufficiente. Noi dobbiamo portare il nostro sguardo, costruire un mondo a due. La vera trasformazione la avremo la prima volta nella storia dell’umanità in cui si costruirà un mondo, fatto di lavoro e cultura, a due. E lì siamo ancora indietro, perché purtroppo si tende all’omologazione con gli uomini.
Tu sei regista, sceneggiatrice ma anche scrittrice di romanzi. Cosa ti diverte di più il cinema o la scrittura e in quale dei due ti senti più libera?
Mi piace scrivere. E anche il cinema e il teatro partono dalla scrittura. Mi vengono dei personaggi e a volte si evolvono in un modo che diventa cinema, a volte teatro, altre volte un romanzo, ma parte tutto da lì: dal personaggio o da un’idea quasi filosofica che prende carne nel personaggio.
Ma se arrivasse il solito sadico omino che ti obbliga a scegliere tra cinema e scrittura o ti butta dalla montagna?
Scrivere.
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