E’ stato il “padre” di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, colui che li scelse, 35 anni fa, giovani magistrati sconosciuti, e li volle con sé nella lotta condotta “in solitudine” contro la mafia. Rocco Chinnici, capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, battezzava il primo pool antimafia della storia, quello che poi sarà formalizzato dal successore Antonino Caponnetto. Con Falcone e Borsellino, Chinnici gettò le basi della cultura e dell’attività investigativa e giudiziaria antimafia, dell’istruttoria del primo maxiprocesso e dell’applicazione della legge Rognoni-La Torre. Con loro ha condiviso, nove anni prima, lo stesso tragico destino: anche lui è morto dilaniato da un’autobomba il 29 luglio 1983, prima vittima “eccellente” uccisa con la tecnica del tritolo, plateale e senza scampo.
La sua unica colpa è stata quella di essere un giudice “non acchiappabile”, come dissero i pentiti. Dall’oblio della storia, solo recentemente è stata restituita dignità alla figura di Rocco Chinnici, grazie al libro: “Così non si può vivere- Rocco Chinnici: la storia mai raccontata del giudice che sfidò gli intoccabili”, edito da Castelvecchi (www.facebook.com/cosinonsipuovivere), con la prefazione del presidente del Senato, Pietro Grasso. Autori, due giornalisti, Fabio De Pasquale ed Eleonora Iannelli, marito e moglie, che hanno scritto il saggio e hanno dato l’input a un dibattito aperto in Sicilia, rinnovando approfondimenti e studi su Chinnici. Dal loro libro ha preso le mosse anche un’inchiesta della Procura di Palermo su un incredibile mistero. Li incontriamo davanti al Tribunale nel quale Chinnici lavorò per 17 anni (nella foto sotto, a sinistra, fabio De Pasquale e Eleonora Iannelli con Piero Grasso)
Eleonora, com’è impostato il libro e cosa contiene?
E’ un saggio-inchiesta in cui per la prima volta, dopo 30 anni, attraverso i racconti dei tre figli e di tanti testimoni, magistrati, investigatori, cronisti del tempo e lo studio delle carte processuali e di documenti inediti, viene ricostruita la storia di Rocco Chinnici. Ma è anche uno spaccato della città di Palermo, negli anni Ottanta, quando imperversava la seconda guerra di mafia e si consumavano i delitti eccellenti. I figli, Caterina, Giovanni ed Elvira svelano tutto, le minacce, l’isolamento del padre, la necessità di sfogarsi in un diario, che viene pubblicato in appendice nel libro in versione autografa, da cui risulta chiaramente la delegittimazione, l’ostruzionismo all’interno del Palazzo di giustizia, la ‘sonnolenza’ di cui parlò lo stesso Chinnici in un’audizione segreta al Csm, recandosi a Roma, sotto falso nome e con la pistola, perché non si fidava di nessuno. Raccontò delle lettere e delle telefonate in piena notte, della mancanza di uomini di cui fidarsi. E si sfogò: Così non si può vivere’, appunto.
Fabio, come avvenne la strage del 29 luglio 1983?
Fu il primo delitto eccellente eseguito con la tecnica dell’autobomba, da strage terroristica. Una 126 verde carica di tritolo venne fatta esplodere con un telecomando, alle 8.05, sotto l’abitazione del magistrato in via Giuseppe Pipitone Federico, un quartiere residenziale di Palermo. ‘Palermo come Beirut’, scrissero i giornali, cioè uno scenario di guerra, strada sventrata, palazzi danneggiati, corpi che volarono in aria e finirono sull’asfalto dilaniati. Nell’attentato morirono anche due carabinieri di scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portiere del palazzo, Stefano Li Sacchi, e rimasero ferite 20 persone.
Eleonora, chi era Rocco Chinnici e quali furono i suoi meriti?
Era il capo dell’ufficio Istruzione, quello che con il vecchio Codice di procedura penale costruiva l’impianto dei processi (fu lui a creare l’embrione del primo maxiprocesso, iniziato dopo la sua morte, grazie ad Antonino Caponnetto che, con Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta, completò la fase istruttoria). E’ stato l’ideatore del pool antimafia, il ‘padre’ di Falcone e Borsellino. Li scelse e li chiamò a sé, quando ancora erano giovani magistrati sconosciuti. E’ stato lungimirante nella sua strategia investigativa. Capì che bisognava lavorare in squadra, formare un gruppo di giudici che si dedicasse soltanto a istruire processi di mafia. E’ stato un fervido sostenitore della legge Rognoni-La Torre, che ha introdotto il reato di associazione mafiosa, e la possibilità di confiscare i beni e anche il primo ad applicarla. Il primo a indagare non solo sulla mafia militare, ma sui colletti bianchi e sui loro patrimoni sospetti. Ha avuto intuito anche nelle indagini sui delitti eccellenti: aveva capito che dietro la morte di Piersanti Mattarella, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Pio La Torre c’era un’unica regia, quella della Cupola e forse anche di qualche ‘mente raffinata’. La storia gli darà ragione. Era un uomo giusto, che faceva antimafia con i fatti, instancabile (iniziava a lavorare alle 5 del mattino), con un’operosità mitica. Sognava per i suoi figli, e per i giovani, una Sicilia pulita senza sangue nelle strade (ci furono 150 omicidi nell’82), senza droga, senza appalti truccati, senza infiltrazioni nella pubblica amministrazione, senza speculazioni edilizie. Fu il primo magistrato a parlare di mafia e antimafia, della cultura della legalità nelle scuole e nelle università, quando 35 anni fa, nessuno si sognava di farlo. “Il giudice papà” lo chiamavano.
Fabio, quindi, in definitiva, Chinnici era un giudice scomodo come pure Falcone e Borsellino?
Sì, era un giudice ‘non acchiappabile’, come dissero i pentiti. Era ‘una roccia’, inavvicinabile, incorruttibile. La sua strategia investigativa faceva paura. E’ stato ucciso a scopo punitivo e preventivo, soprattutto: per vendetta, per quanto già aveva fatto (un anno prima, il procedimento Michele Greco, ‘il papa’ più 161), per quanto stava facendo, ma soprattutto per ciò che si accingeva a fare, come testimoniarono al processo, tra gli altri, Borsellino, Pellegrini e Cassarà: emettere provvedimenti clamorosi di arresto nei confronti di chi rappresentava in quel momento il potere politico-economico in Sicilia, i cugini Nino e Ignazio Salvo, ricchi esattori originati di Salemi, che gestivano il sistema di riscossione dei tributi in Sicilia, con un appalto-monopolio della Regione, foraggiando la potente corrente di Salvo Lima e Andreotti. Erano loro a prestare le auto blindate alla Questura. Chinnici dava fastidio anche per la sua attività divulgativa antimafia, nelle scuole, nelle università, nei convegni, nelle televisioni locali.
Nel libro si svela anche una storia incredibile, quella di un processo “fantasma”, mai celebrato, cosa accadde?
Sì, quello contro un giudice messinese, che fu presidente della Corte d’Assise d’Appello, Giuseppe Recupero, accusato di essersi fatto corrompere per 200 milioni e un cavallo, per aggiustare una sentenza e assolvere mandanti e killer della strage. La tranche messinese del processo ventennale sulla strage Chinnici si svolse nell’88. Michele Greco e altri furono condannati solo per associazione mafiosa e assolti, invece, dall’accusa di strage. Nel ’95 un pentito messinese, Gaetano Costa, ha rivelato questo presunto retroscena. Dopo altri riscontri, nel 1998 la Procura di Reggio ha chiesto per il giudice il rinvio a giudizio. Il Gup Giuseppe Santalucia ha deciso, con sentenza, che la competenza era del Tribunale di Palermo e il fascicolo è stato spedito al Tribunale del capoluogo dell'Isola. E lì si sono perse le tracce. A distanza di oltre 15 anni, noi scopriamo che il faldone è arrivato a Palermo ma, inspiegabilmente, non è stato mai iscritto a ruolo. E’ rimasto ad ammuffire negli archivi fino ai giorni nostri. Solo ora è saltato fuori a seguito delle nostre ricerche, ma nel frattempo l’imputato non è più giudicabile. É morto da quasi sei anni. E quindi, il procedimento, iscritto a ruolo dal procuratore aggiunto, Vittorio Teresi, è stato archiviato.
Foto tratta da antimafieduemila.com