Quando si parla di culinaria a New York, soprattutto di educazione all'arte, all'etica e al business della cucina, il nome di Dorothy Cann Hamilton spunta al centro di ogni dibattito. Fondatrice nel 1984 del French Culinary Institute, trasformato venti anni dopo nell'attuale International Culinary Center, Hamilton è da anni tra i personaggi più influenti del settore culinario degli Stati Uniti e del mondo. La sua scuola "università" della cucina, con sedi anche all'estero tra le quali spicca Parma, da oltre trent'anni sforna gli chef che hanno rimodellato il gusto e le abitudini del cliente americano per quei ristoranti di cucina internazionale dei grandi centri urbani degli Stati Uniti. Quindi non eravamo sorpresi affatto quando uscì la notizia che Hamilton, nata e cresciuta a Brooklyn da famiglia di origini irlandesi, con studi in Inghilterra, Francia e poi MBA a NYU, era stata scelta come Presidente del Padiglione USA per l'EXPO di Milano.
Chi scrive conosce Dorothy da quando decise di ingrandire il suo istituto di studi culinari allargandolo alla cucina italiana. Ricordiamo un gustosissimo evento con tante prelibatezze per la presentazione alla stampa di New York dello chef-prof Cesare Casella come "Dean" per il nuovo corso di studi. Recentemente, l'abbiamo incontrata Dorothy alla presentazione del padiglione USA alla stampa di New York quando si presentava anche la partnership con Illy Caffè.
Pochi giorni fa siamo tornati alla sede sulla Broadway dell'International Culinary Institute, dove c'è anche il noto ristorante in cui gli chef sono tutti studenti della scuola, per intervistare la direttrice fondatrice alla vigilia della sua partenza per Milano. Abbiamo cercato di sondare aspettative e strategie di chi ha avuto la vision e la responsabilità di "preparare" il made in USA del cibo per l'EXPO Milano 2015.
Dorothy ci accoglie in un momento di grande frenesia, è in partenza infatti per l'Italia e ovviamente la sua scuola ha bisogno di tutte le sue ultime attenzioni. Circondata da manager e docenti, si stacca dal gruppo indicandoci un ufficio dove, ci avverte, questa volta può concedere solo venti minuti. Alla fine chiacchiera con La VOCE ben oltre mezz'ora. Questo è il resoconto della nostra conversazione con la Presidente del Padiglione USA per l'EXPO 2015.
Come presidente di Friends of the US Pavillion, quali sono le sue funzioni?
“All'EXPO ogni padiglione che rappresenta un paese ha come alto rappresentante un commissario generale, che per gli Stati Uniti è Doug Hickey, che è allo stesso livello di un ambasciatore. Si tratta quindi di una nomina politica fatta dal presidente degli Stati Uniti, ma il commissario generale, pur essendo il responsabile designato, non è la persona che ha creato il padiglione, tanto più che è stato nominato soltanto il 1° dicembre.
Di cosa è responsabile quindi il commissario generale?
“Il Commissario Generale è il rappresentante del governo degli Stati Uniti per l'EXPO. È il funzionario del governo, ma non gestisce né organizza il padiglione”.
Lei invece è stata coinvolta in tutto il processo di ideazione e realizzazione del padiglione. Da quanto tempo?
“Io sono stata coinvolta per almeno tre anni. Partecipai a un incontro sull'EXPO già nel 2012, perché insegniamo cucina italiana qui e mandiamo i nostri studenti in Italia, nella nostra sede di Parma, per studiare e lavorare nei ristoranti in modo che possano conoscere i veri prodotti italiani e tornare negli USA avendo acquisito un bagaglio di conoscenze sulla vera cucina italiana, la lingua e l’eredità del Paese. I nostri studenti sono davvero degli ottimi ambasciatori. Tre anni fa, mentre ero in visita ai nostri studenti a Parma, il Governo mi fece sapere che aveva intenzione di portarmi a Milano, all’EXPO, così andai ad un enorme convegno che illustrava la manifestazione. In seguito mi dissero che forse i miei studenti avrebbero potuto partecipare all’EXPO e mi sembrò subito un'idea fantastica. Incontrai gli organizzatori e alcuni di loro, insieme a Stefano Gatti, vennero qui a New York e organizzammo un incontro all’International Culinary Center cui furono invitati studenti da ogni parte del mondo. Vennero da Hong Kong, Sud Africa, tutti qui a New York, e Stefano illustrò l’EXPO e spiegò che stava cercando di coinvolgere scuole di cucina di ogni parte del mondo.

Dorothy Cann Hamilton, Andrea Illy e Mitchell Davis
E quando fu poi formalizzato il suo impegno?
“Ad aprile, due anni fa, Stefano Gatti, responsabile per i padiglioni internazionali, mi ha chiamato e mi ha detto: 'Abbiamo bisogno di una notte bianca'. Io non sapevo di cosa stesse parlando. Mi spiegò che il Dipartimento di Stato USA non aveva mostrato interesse per l’EXPO e che loro avevano bisogno di una persona che fosse importante nell’ambito alimentare negli USA e fosse in grado di attirare l'attenzione del Dipartimento di Stato".
E lei era la persona che stavano cercando…
“Voglio spiegare una cosa: ogni altro paese del mondo, forse con un’eccezione, paga per il proprio edificio all’EXPO, sono fondi dei governi. Negli USA abbiamo leggi per cui i fondi federali e quelli derivanti dalla tassazione non possono essere spesi per manifestazioni come l’EXPO. Per questo motivo il nostro padiglione è completamente finanziato con fondi privati. Tuttavia, il nostro padiglione è il padiglione ufficiale degli Stati Uniti, quindi chi lo realizza deve essere scelto dal Dipartimento di Stato, anche se non danno alcun contributo finanziario. Sono loro a fare i contratti e a scegliere chi ha la 'vision' ed è in grado di fare la programmazione, eccetera.
Io sono stata in passato presidente del James Beard Foundation e so che questa fondazione è in contatto con il Dipartimento di Stato. Così ho chiamato un mio amico della Fondazione, Mitchel Davis, molto coinvolto nelle politiche alimentari e nella riflessione sul cibo, è anche un professore con PhD. Gli ho detto: 'Mitchel questo è davvero interessante, che ne pensi se la James Beard Foundation e l’International Culinary Center costruissero il padiglione USA per dire al mondo cos'è il cibo americano? Perché molti pensano che il cibo americano sia fatto dalle corporation, ma noi, lavorando con i nostri chef, sappiamo che non è così e questa potrebbe essere un'opportunità per mostrare un’altra prospettiva'. A Mitchel sembrò una buona idea. Così io e Mitchel creammo una presentazione sulla nostra idea del cibo americano e la portammo al Dipartimento di Stato e la presentammo anche all’Ambasciatore d’Italia a Washington, Claudio Bisogniero che venne anche qui all’International Culinary Center”.
E qual è la vostra prospettiva sul cibo americano?
“Il cibo americano non è solo l’hamburger, siamo una nazione di immigrati, abbiamo piatti dal Vietnam all’Italia passando per la Tailandia… La visione che abbiamo dipinto è quella di un'America diversa, deliziosa, che pensa, responsabile. Sappiamo che il modo in cui mangiamo presenta ancora alcuni problemi, per esempio nelle scuole, ma ci sono molte persone che stanno lavorando per trovare soluzioni brillanti. La gente sta iniziando a capire. Ed è quindi ancora più importante per noi mostrare che gli Stati Uniti sono responsabili, innovatori e che abbiamo buone conoscenze da mettere in pratica”.
Oggi si parla molto dei metodi produttivi dell'industria alimentare USA e del suo impatto sull'ambiente. Cosa mi dice in merito?
“Beh qui arriviamo su un altro livello. Quando abbiamo iniziato a parlare avevamo questa idea… Barack Obama era in Italia con il primo ministro Matteo Renzi e il Segretario di Stato John Kerry che, come sai, da giovane è andato a scuola anche in Italia, ha molti amici italiani e naturalmente ama l’Italia. Quindi ad aprile dell’anno scorso hanno annunciato che avremmo avuto il nostro padiglione. C’erano circa altri 4-5 gruppi che avevano risposto all'annuncio del Dipartimento di Stato, però alla fine ha scelto noi”.
Vi hanno scelto perché non solo siete stati i primi a mostrare interesse in merito ma, per la vostra "vision"?
“Veramente non siamo stati i primi, c’erano altre società prima di noi che avevano già presentato dei progetti da diversi anni. Penso che al Dipartimento di Stato piacesse molto la nostra idea di Padiglione. Quindi, ricapitolando, vincemmo poco più di un anno fa, ad ottobre: avevamo, credo, 18-19 mesi per trovare i fondi, ovvero circa 60 milioni di dollari per costruire gli edifici…”.
Non molto tempo..
“Era un progetto molto ambizioso. Abbiamo iniziato a incontrarci regolarmente con il Dipartimento di Stato perché, dopo tutto, questo è il padiglione USA e il Dipartimento di Stato deve approvare qualsiasi cosa noi facciamo e naturalmente quest’ultimo ha anche un punto di vista su cosa sia il cibo americano. Ho incontrato anche l’ex sindaco [di Milano] Letizia Moratti, la quale venne all’International Culinary Center e mi disse che l’Expo non riguarda solo il cibo, ma anche l’energia, la scienza e la tecnologia. Il Dipartimento di Stato ci ha scelto per la nostra visione sul cibo, ma qui si tratta anche di molto altro…
E in questo caso vi era anche la sostenibilità..
“Certo. Il Dipartimento di Stato ci informò su quanto l’America sta facendo in materia e naturalmente il Ministero dell’Agricoltura USA sapeva tutto quello che accadeva in merito nelle università e nei vari think tank in tutto il paese. Cominciammo così ad essere coinvolti molto di più nella scienza, nei cambiamenti climatici, nella sicurezza alimentare, e in aggiunta avevamo la nutrizione. Quindi parleremo del cibo americano, presenteremo il cibo americano, tuttavia il messaggio principale all’EXPO è: come nutriremo 9 miliardi di persone nel 2050, responsabilmente, sostenibilmente e con rispetto per il pianeta? Il nostro tema American Food 2.0 rappresenta l’evoluzione in America, nel modo di essere sostenibile e nel nutrire il futuro. Un nostro sotto tema è One in 9 billion (uno su nove miliardi). Quando la gente ci chiede su cosa è incentrata la nostra esposizione, io rispondo: il senso di colpa”.
Il senso di colpa?
“Quando si entra, o meglio si sale, per vedere la nostra esposizione al 2° piano (o 1° piano, come dite in italiano), si viene accolti da un video di Obama in cui il presidente dice: sapete come abbiamo risolto questo problema? Tu sei uno dei nove miliardi e ciò che tu scegli di fare inciderà su come potremo nutrire gli altri, non dobbiamo attendere la Gates Foundation, eccetera…”.
È una scelta di tutti noi, quindi, e ciò che determinerà il nostro futuro.
“Voglio citare Wendell Berry, grandissimo scrittore americano: Eating is an agricultural act (mangiare è un atto agricolo). Quello che decidiamo di mangiare è una dichiarazione, è una nostra responsabilità. Perciò il nostro tema è Uno su 9 miliardi: tu sei uno su 9 miliardi ed è tua responsabilità. Nel padiglione ci saranno diverse esposizioni e si troveranno informazioni sulla sicurezza alimentare, su scienza e tecnologia, ci saranno chef che metteranno in mostra il loro modo di cucinare e li vedremo anche sotto il profilo di attivisti: abbiamo moltissimi cuochi in America coinvolti a porre l’accento su queste tematiche”.
Il focus quindi è sul futuro. Vi è questo sentimento nel mondo, che l’America consumi più di quanto dovrebbe, c’è un problema riguardante quanto cibo viene sprecato e via dicendo… Ma questa vostra presentazione riguarderà come l’America sta aggiustando se stessa e il mondo del futuro nel suo rapporto col cibo?
“Beh, è su come noi contribuiremo… Un altro tema che affrontiamo è United to Feed the Planet (Uniti per nutrire il pianeta): dobbiamo essere uniti. Non si tratta di una soluzione che riguarda solo un paese, o di un problema che riguarda solo un paese. Ci sono molti sprechi e li stiamo affrontando”.
Lei è la fondatrice di questa prestigiosa scuola dove gli studenti, oltre ad imparare a cucinare, imparano anche ad avere appunto una "vision" sul cibo, sugli aspetti sociali del nutrire la gente. Cosa della idea portante di questa scuola porterà all'Expo? Moltissimi chef sono passati da questa scuola… Quali sono i valori culinari che li hanno formati?
“I principali valori sono: qualità, disciplina e realtà. In questa scuola siamo davvero severi sulla disciplina nelle tecniche. Insegniamo la tecnica francese, quella italiana. La prima cosa che viene detto agli chef all’orientamento è: se non vi piace la gente potete anche lasciare la scuola, perché lo chef è una persona con la quale si instaura una relazione molto personale e intima, quindi bisogna rispettare i sentimenti della persona che servite. Sono gli chef che faranno le cose più intime… Sono loro che metteranno una piccola parte di cibo nel nostro corpo. Pochissime persone possono farlo".
Molto intimo. Come un atto d’amore.

La sede dell’International Culinary Center sulla Broadway
“Esatto. O come la comunione nella religione. Perciò, prima di tutto, questa è la cosa fondamentale, qual è la funzione del cibo, qual è la posizione del cuoco. Il secondo punto sono i rifiuti, gli scarti. Insegniamo che quando si sbuccia una mela, la pelle non si butta ma la si usa per altro e ciò non è positivo solo per il pianeta ma anche per il portafoglio dello chef".
Esatto!
“Noi insegniamo a non sprecare niente e a trasformare in compost. Insegniamo a riciclare. Non è niente di nuovo. Grandi chef lo facevano già tanti secoli fa. Poi bisogna avere l’uniforme pulita, lavorare nel pulito, avere le istruzioni ben chiare in cucina, quindi non è la tipica cosa America e gli studenti l’adorano. Quando vedi i nostri studenti cucinare e vedi il modo in cui preparano la loro postazione, è tutto davvero professionale e limpido. Loro sanno come interagire con la cucina con rispetto. A nessuno interessa se tu sei un grande chef, non lo puoi essere se la tua cucina è un disastro, non è un modo di cucinare con professionalità. Cucinare professionalmente non è come quando prepari una festa per tuo fratello e 50 persone. Quando sei al ristorante, servi due, poi quattro, poi due, sei, quattro e via dicendo…”.
C’è un certo ritmo.
“Si basa tutto sull’organizzazione, il lavoro di squadra, l’attitudine, il rispetto verso i prodotti, e questo vale per tutti i grandi chef al mondo. C’è solo una cucina, una buona cucina ed è rispettare i prodotti, le persone che nutrirai, e te stesso.
Si può cucinare italiano, francese, asiatico, spagnolo, ma i valori restano gli stessi…
Si guarda alle grandi cucine del mondo, come stanno facendo i grandi chef. Noi insegniamo in maniera professionale, insegniamo ad alto livello, ma per loro non si tratta di andare in un ristorante tre stelle Michelin, molti di loro lavorano nelle scuole. Abbiamo il personal chef di Derek Jeter dei NY Yankees. Lo abbiamo nutrito per gli ultimi 15 anni e sai perché? Perché di solito andava al Mc Donalds’… e i suoi risultati atletici non erano molto buoni. Così il suo agente si è messo in contatto con un nostro laureato e gli ha chiesto di cucinare per lui".
Chissà come ha giocato meglio…
“[Ride] è una storia molto divertente… Comunque ciò che insegniamo qui è rispetto, disciplina, e umiltà, cose davvero importanti”.
A Milano, mentre andando al padiglione spagnolo o francese, si troveranno quelle rispettive nazionalità e identità, il padiglione USA sicuramente avrà qualcosa di americano che non si trova altrove, ma il fatto che l’America sia una nazione di immigrati si rifletterà sul padiglione? L'esposizione americana all'EXPO sarà in grado di dimostrare come il modo di cucinare italiano, francese, spagnolo hanno cambiato e influito sull'America?
“Sì , la risposta a questa domanda si trova al 1° piano. È una riproduzione della boardwalk [passerella] di Coney Island, distrutta dall’uragano Sandy. Se si scende da questo piano e si rientra nel padiglione tutto riguarda i cibi americani. Nel primo invece si parla di cibi relativi all’immigrazione e celebreremo gli spaghetti con meat balls, perché non si mangiano spaghetti e polpette in Italia [ride]. Abbiamo anche Kitchy Tacos, Chai Mint, salse di pollo che non si fanno in Cina. Sono tutti adattamenti arrivati insieme ai gruppi di immigrati proprio perché non trovavano i propri prodotti regionali e originali. E le seconde generazioni, pensavano che si trattasse di cibi originali. Anche nomi come french fries che viene dalle pommes frites francesi; o hamburger dal tedesco Hamburg. Un'altra cosa che mostreremo al piano di sotto è come mangiano gli americani. Sai come ci piace mangiare. Ci piace comprare qualcosa in strada, ci piace comprare la colazione per strada… [ride]”.
Perché siete sempre di fretta!
“Siamo di fretta, siamo multitasking…”
Al contrario degli italiani!
“Esatto e tutti lo potranno vedere. Camminare, mangiare, parlare…”
Gli italiani dicono che non è molto salutare questo modo di mangiare…
“Sì, ma questo è il nostro modo [ride]. Poi metteremo in mostra la nostra cena per il giorno del Ringraziamento…”
Questo è davvero americano!
“Sì, e si vedrà la tradizione. Poi vedrete come si trasforma la cena per il giorno del Ringraziamento cinese, con riso in tavola e non patate dolci, tacchino inscatolato e non arrosto; poi vedrete la cena per il giorno del Ringraziamento in versione italiana, con la pasta! Ciò mostra come ogni ondata di immigrazione sia stata inclusa e assorbita nelle nostre tradizioni. Poi mostreremo il barbecue, biscotti originali, le aragoste, i tacos…”.
Da immigrato italiano in America, ho trovato grandi differenze tra aree urbane come New York, Boston e Chicago e le aree rurali nel modo di mangiare. Vedremo anche questi aspetti?
“Beh, penso che vedrete cucine regionali, come in Texas con molte bistecche di manzo, ma anche le piccole città come Nashville, Charlestone, Portland Oregon, Portland Maine, stanno diventando grandi Food City, per via della cultura del cucinare, le scuole di cucina, penso che si vedrà che il cibo americano stia diventando sempre più sofisticato”.
In generale cosa si aspetta da questa mostra del cibo e quale sarà il futuro nel nutrire le persone in un modo sostenibile? Come misurerà il successo?
“Il primo successo per me è portare gli italiani nel nostro padiglione e vederli uscire dicendo che non avessero idea che gli USA abbiano a cuore il pianeta e siano impegnati nella lotta contro i cambiamenti climatici, per la sicurezza alimentare, il mangiar meglio, il nutrire le popolazione e via dicendo. E poi mostrare che abbiamo così tante varietà di cibi”.
Non solo fast food…
“Già, non solo fast food. E vedere perciò i visitatori scioccati. Vorrei che dicessero di noi che siamo responsabili, innovativi, che usiamo le etichette nel modo giusto e che il cibo americano è delizioso”.
Pensa che si creerà una sorta di competizione, come alle Olimpiadi, tra i vari padiglioni, registrando quanti visitatori sono passati per ognuno? Sente competizione tra le nazioni partecipanti?
“Certamente. Il problema è che possiamo far entrare solo 2.000 persone l’ora. Ci saranno 20 milioni di persone che verranno all’EXPO e noi possiamo averne 2 o 3 milioni nel nostro padiglione. E per molti altri padiglioni sarà lo stesso. Perciò spero che la partecipazione sia ai massimi e ci attendiamo moltissimi italiani. Ne saremmo molto contenti perché gli americani amano l’Italia ed è la cucina più popolare in America”.
Ho un'ultima domanda: come mai secondo lei i ristoranti e gli chef italiani hanno così tanto successo a New York?
“Facile. Prima di tutto perché il cibo italiano è buonissimo, economico e non troppo di lusso come ad esempio la pasta che è ottima, l’insalata, anch’essa deliziosa. Poi la preparazione: i prodotti sono cucinati molto bene. Ma soprattutto quando entri in un ristorante italiano vieni accolto da un sorriso, un modo di accoglierti che fa parte della cultura e che ti fa sentire a casa. Infine i prodotti italiani sono eccezionali. I vini sono deliziosi. Avete il Grana Padano, questi formaggi sono così gustosi e il prosciutto, la mozzarella… tutto così accessibile alle tasche di chiunque. E non scordiamoci l’espresso!".