Figli della generazione Millenial, cosmopoliti nerd con la vocazione per l’high-tech e l’infocom. Non sognano il posto fisso, ma l’impresa, un progetto proprio. Si sono aperti al mondo con il progetto Erasmus e spesso hanno continuato, per essere più competitivi, con un master in America. Poliglotti, hanno adottato come manifesto il celebre discorso di Steve Jobs tenuto a Stanford, e fatto di quel “siate affamati, siate folli”, il loro motto. Competitivi, giovani e preparati, il mondo degli startupper inizia in California. Dai sogni nei garage di Steve Jobs e di quei geniacci di Google, Facebook e Twitter. Ha attraversato l’oceano e ha trovato nelle capitali europee il suo terreno fertile: a Londra come a Berlino la start up non è però un passepartout alla crisi economica. È la risposta contemporanea e globale alla nuova economia. Una forma di impresa che sembra, apparentemente, aperta a tutti, che richiede creatività, originalità e un pizzico di fortuna. È figlia del brain storming e di quell’andare in giro per il globo. Non basta però un’idea, sebbene brillante.
Danilo Campisi, siciliano di Siracusa, è figlio del mondo delle startup. Una laurea alla Bocconi di Milano, un periodo di studi a Miami, esperienze alla Presidenza del Consiglio e alla Rappresentanza italiana a Bruxelles. Dopo aver messo dentro il suo curriculum alcune esperienze manageriali per società di New York e Torino, volontariato in India e lavoro nel marketing in Africa, l’incontro con le startup inizia a Berlino. Mettendo in pratica quanto appreso in consulenza manageriale e con le startup, Danilo fonda Reboot Founder, una no profit che aiuta i giovani imprenditori a passare dall’idea alla startup.
Oggi è responsabile di AirHelp Italia (e Direttore del Marketing Online a livello internazionale), una start up partita dall’idea di 4 persone che oggi si ritrova con quaranta risorse umane e uffici in 17 paesi del mondo. Da una piscina della Thailandia, in cui è stata concepita, AirHelp si ritrova ad essere incubata presto da Y Combinator, incubatore creato per finanziare giovani start up.
Il successo? I numeri. AirHelp aiuta milioni di passeggeri in tutto il mondo ad ottenere rimborso da parte delle compagnie aeree in caso di volo in ritardo, cancellato o in overbooking anche dopo tre anni.
Danilo ci spiega i meccanismi di questo mondo affascinante, dove tutti pensano che un’idea, un app si possa trasformare subito in soldi, e cosa occorre affinché una start up diventi un modello imprenditoriale di successo. Ci racconta anche cosa significa oggi fare parte della “Silicon Valley State of Mind”.
Danilo, una laurea alla Bocconi e varie esperienze in giro per il mondo. Poi arriva l'America. Una tappa obbligata, quella che passa per il continente americano, per chi vuole avviare una start up e proiettarsi verso il futuro?
AirHelp nasce in una piscina in Thailandia. Quando abbiamo saputo di essere stati incubati da Y Combinator, dopo quasi un anno dalla fondazione, eravamo presenti in tutta Europa e avevamo un team di quasi 20 persone. Quindi, posso dire con certezza che andare in America non è una tappa obbligata per avviare una startup, ma se parliamo di fundraising ed espansione, il discorso cambia. Molto si sta muovendo in Italia in questo senso, e i vari incubatori e acceleratori di impresa stanno facendo la loro parte, ma credo che la situazione non sia comparabile a quella di altri ecosistemi. Non mi riferisco solo alla Silicon Valley, in Europa abbiamo un centro molto attivo di investors in Inghilterra. Molti capitali americani stanno aprendo la loro base a Londra a caccia di talenti europei. Berlino sta giocando anche le sue carte, ma sebbene offra un buon ecosistema utile in una fase di avvio, conosco molti founders che da Berlino vanno in Inghilterra quando hanno bisogno di finanziamenti. Poi ci sono i paesi in via di sviluppo, dove molte startup si spostano per via dei bassi costi, specie per assumere developers.
Di cosa si occupa AirHelp nel dettaglio?
AirHelp aiuta milioni di passeggeri in tutto il mondo ad ottenere rimborso da parte delle compagnie aeree in caso di volo in ritardo, cancellato o in overbooking. Questo mediante un processo di gestione del reclamo da parte del nostro team di specialisti o avvocati quando si ritene necessario citare una compagnia aerea in giudizio. La legge europea 261/2004, infatti, nata dal bisogno di definire regole chiare su cosa rendesse i passeggeri eleggibili di rimborso, stabilisce che ogni passeggero eleggibile di rimborso ha diritto da €250 a €600 in base alla distanza del volo. Le vecchie regole lasciavano troppo spazio all'interpretazione e questo veniva usato dalle compagnie aeree a svantaggio dei passeggeri eleggibili.

Danilo Campisi (AirHelp)
Da dove nasce l’idea?
I passeggeri possono inviare un reclamo direttamente alla compagnia aerea, ma questo mezzo significa compilare tonnellate di moduli e passare un sacco di tempo a cercare la regola da applicare. Questa è la ragione per la quale abbiamo fondato AirHelp, con la consapevolezza che questo processo potesse essere reso meno burocratico e ottimizzato. Se vuoi ad esempio che AirHelp gestisca il tuo reclamo, basta andare sul nostro sito web, o scaricare la nostra applicazione per Apple o Android, e inviarci le informazioni sul volo. Noi poi ci prendiamo cura di tutto il resto chiedendo solo il 25% del rimborso ottenuto, se riusciamo a farlo ottenere al cliente, altrimenti non chiediamo nulla (no win, no fee).
Oltre 5.000 italiani si sono trasferiti negli ultimi anni in California dove hanno fondato start up di successo. Altri di questi sono diventati CEO o CFO di importanti società. C'è un filo rosso che lega il mondo delle start up italiane ai venture capital della California?
Vorrei subito sfatare il mito che basti andare in America per avere successo. Oltre ai 5.000, bisognerebbe contare anche quanti sono ritornati a casa. Innanzitutto ci sono i problemi legati al Visto. La soluzione qui sarebbe quella di venire incubati da qualche incubatore a San Francisco, cosa non proprio facile, di certo non senza avere i numeri giusti. E con questo mi riferisco alle metriche di business. Di sicuro c’è tanta strada tra una buona idea e una startup, e tra questa e una startup di successo. Statistiche alla mano, il 99% delle startup fallisce entro un anno e di quelle che non falliscono, lo zero virgola qualche altro zero percento diventa un successo. Inoltre, trasferirsi in California costa, almeno quanto Londra e quindi il doppio di Berlino, così come costa spostare qui la sede aziendale o assumere dipendenti. Nello specifico, se un intern lo paghi a Berlino €500 e un dipendente €2.500 al mese, a San Francisco si parla di €3.000 per un intern e €6.000 per un dipendente. Senza considerare che, gli sviluppatori in particolare, non rimangono poi tanto fedeli con offerte sul mercato come quelle di Google, Twitter, Facebook, Apple etc.
Marco Marinucci di Mind the Bridge Foundation, e Matteo Fabiano, co-presidente della Business American Italian Association, un'organizzazione che vuole collegare i ricercatori e gli industriali italiani che vivono fuori. Come gli italiani all'estero contribuiscono alla crescita delle start up creando un ponte tra i due paesi?
Conosco bene Mind the Bridge, un pò meno BAIA, sebbene fossi entrato in contatto con la loro associazione quando vivevo a San Francisco. Penso che sia compito degli Italiani all’estero non solo quello di portare la propria esperienza, come sto facendo io, o di fornire le giuste connessioni, come fa Mind the Bridge o BAIA, ma anche e soprattutto quello di informare. Bisogna essere onesti, dire le cose come stanno nel bene e nel male. Spesso vedo invece molti specchietti per allodole, che finiscono per costare tempo e risorse a molti neo imprenditori che di tempo e risorse ne hanno davvero pochi.
Renzi, ha voluto iniziare la sua ultima visita in America incontrando i giovani italiani della Silicon Valley ai quali ha detto "non cedo alla cultura dei cervelli in fuga e non farò il discorso di tornare in Italia, vi chiedo di andare avanti e faremo di tutto per cambiare l'Italia, renderla un Paese più semplice, con un mercato del lavoro diverso, con una classe politica dimagrita". Sei d'accordo sul fatto che non bisogna per forza tornare in Italia?
Viviamo in un mondo globale, non ci sono davvero limiti a dove possiamo fare cosa. Penso sia quindi non solo un nostro diritto, ma anche una scelta strategica ben precisa, analizzare sempre vantaggi e costi. Non credo al posto per eccellenza, credo a posti che rispondono meglio a determinati bisogni e obiettivi, sia di business che personali. Molti giovani imprenditori che vogliono fare startup in Italia, oggi non vedono nel nostro paese una valida risposta, sta alla politica, ma non solo, creare i presupposti.
In Norvegia il governo ha creato un Authority per le start up e destina parte dei ricavi del petrolio alle start up mentre in Sicilia, è notizia di pochi giorni fa, due giovani ricercatori si sono visti respingere la domanda di finanziamento della loro startup che invece ha ricevuto 2 mln di dollari da un investitore della Silicon Valley. Se ci sono dei gap in Italia, sono a livello governativo o imprenditoriale?
Non entrerei nel merito del caso specifico, non conoscendone i dettagli, ma rispondo volentieri alla domanda. I gap sono sia a livello governativo sia a livello imprenditoriale. Ci sono vari modi con cui il governo potrebbe promuovere lo sviluppo di iniziative imprenditoriali, oltre a semplificare la burocrazia e alleggerire la tassazione. Le startup sono per definizioni capitali ad alto rischio, quindi non credo che sia dovere del Governo quello di entrare direttamente nel loro capitale. Il discorso cambia se si parla invece di fondi come quelli della Norvegia o di creare le condizioni per attrarre capitali privati e far operare le startup in un ambiente competitivo. A livello imprenditoriale, invece, bisogna imparare a non fermarsi dai confini di uno stato. Per una startup potrebbe essere conveniente partire in Italia, fare connessioni a Berlino, cercare fondi a Londra, fare un espansione in America o avere anche degli sviluppatori in Asia. Ma per fare questo spesse serve esperienza e connessione, e qui società come Mind the Bridge o BAIA potrebbero aiutare. Quello che assolutamente non bisogna invece fare, e succede spesso, è farsi limitare dai vincoli e lamentarsi senza fare nulla. Le cose stanno cambiando a livello governativo, ma questi gap continueranno ancora per anni. Se ci muoveremo nella giusta direzione, forse riusciremo a ridurli, altrimenti non faranno che aumentare. Ma non sono una scusa per rallentare o fermarsi a livello imprenditoriale.
Infatti le cose sembrano cambiare un pò anche in Italia dove il mondo delle startup è molto fertile e in crescita. Come vedi il panorama italiano dagli Stati Uniti?
Confermo che il mondo delle startup è in crescita, e anche la visione sta iniziando a cambiare a livello culturale. Detto questo, credo che tanto si debba ancora fare prima di dire che sia fertile. Abbiamo parlato dell’avversione al rischio, sia da parte degli investitori che degli imprenditori, una tassazione ancora troppo alta e una burocrazia complicata. Anche qui, qualcosa si sta cercando di fare, anche con i governi precedenti, ma siamo ancora lontani ad altri paesi. I talenti ci sono e costano meno di Londra o San Francisco, ma molti preferiscono non investire in un paese incerto. Questo provoca cervelli in fuga e incapacità di attrarre quelli dall’estero. Molte università stanno attivando i propri incubatori di impresa, ma vedo che ancora poco viene fatto a livello accademico. Le facoltà di business, un po’ meno la Bocconi, si basano ancora troppo su un modello di insegnamento teorico, mentre chiunque abbia fatto uno scambio all’estero sa bene come qui in America ci si focalizzi molto sulla pratica.
Perché la California è il luogo ideale per una startup? Quali le agevolazioni economiche, burocratiche…?
Non si tratta tanto di agevolazioni economiche o burocratiche. A spingere molti a spostarsi in Silicon Valley sono, in due parole, ecosistema e networking. Ci sono eventi di vario genere, tra cui ovviamente, quelli per imprenditori di vario livello. Tramite questi eventi, spesso gratuiti, si riescono ad incontrare persone molto interessanti: imprenditori, investitori, persone che lavorano nella aziende più famose del mondo. Non solo questo, ma anche il fattore culturale gioca un ruolo importante.
La Silicon Valley é anche uno "state of mind'. Non solo distretto high tech e infocom, ma anche una filosofia di vita. Puoi raccontarci su cosa si basa, secondo la tua esperienza?
Condivido e questo vale dall’idea all’exit delle startup. Partiamo da quest’ultima. A differenza di New York, dove vivo adesso, in Silicon Valley si fa una startup per cambiare il mondo, anche se poi la maggior parte delle exit vengono fatte lì per via delle grosse società di high tech e infocom. Riguardo all’idea, invece, ti viene chiesto sin da subito come vuoi realizzarla e non cosa farai dopo aver finito di perdere tempo. Credo che il punto cruciale sia la propensione al rischio, sia da parte dell’imprenditore che dell’investitore. Conosco molti fondi italiani che non investono da anni, o che lo fanno solo dopo una lunga procedura, con numeri bassissimi e su un numero davvero limitato di startup. Dall’altra parte, ho visto molti ragazzi abbandonare il proprio progetto dopo i primi mesi, specie se nel frattempo arrivava una proposta di lavoro interessante (ma anche non troppo interessante). Questo non significa che consiglierei a qualcuno che pensi di avere una brillante idea di mollare tutto. Bisogna sempre ricordare che un’idea vale quasi niente. Tutto sta poi a come viene realizzata. E realizzarla significa tempo, impegno e sacrifici, spesso anche un investimento personale iniziale. Prima di farlo, spinti sicuramente dallo spirito di entrare a far parte di quelli che ci sono riusciti, bisogna tenere questi aspetti ben in mente ed andare avanti con prudenza, ma costanza. Quello che spesso vedo è invece un grande entusiasmo iniziale che non porta poi a nulla.
Basta un'idea per una startup?
No. Pensare anche, come spesso accade, che qualcosa ti possa rubare la tua preziosa idea, ricordando episodi come quello di Steve Jobs con Wozniak o Zuckerberg con i fratelli Winklevoss per me suona ridicolo. Inviterei tutti quelli che pensano di aver avuto un’idea eccezionale a cercarla su Google, magari anche in inglese. Sono certo che scopriamo di non essere i soli e i primi ad averci pensato. Le idee disruptive sono pochissime e non nascono dal nulla. Quello che conta si chiama execution. E questo richiede esperienza, conoscenza, capitali, ecosistema e tante altre doti personali e del team che spesso riescono a legarsi bene insieme solo con una buona dose di fortuna. Così si passa dall’idea alla startup.
Quali gli elementi vincenti affinché una start up diventi un'impresa di successo?
Mantenendo gli stessi elementi citati poco sopra, aggiungo tre parole: metriche, metriche, metriche. Ho visto e lavorato in startup che dopo le prime seed sono morte perché non sono riuscite a fare un round A. Questa è stata l’evidente conseguenza di un modello di business forse promettente all’inizio, ma nei fatti non vincente. Tutto sta nei numeri. Quanti clienti riesci ad ottenere ogni giorno? A quanto ammontano i tuoi costi per cliente considerando la spese per il prodotto, marketing, finanza, aspetti legali e tecnologia? Non bisogna mai dimenticare che essere una startup significa inevitabilmente essere piccoli. Essere piccoli ha il vantaggio di essere flessibili e lo svantaggio di avere meno risorse. Ma spesso quello che accade è vedere startup che pensano da grosse aziende, seguendo piani irrealizzabili ed estremamente costosi, ipotizzando un eventuale Round A. Ma sfido chiunque a trovarmi un investitore che investe in un business di questo tipo. E infatti poi molti si sorprendono di non riuscire ad ottenere altri fondi. Ad AirHelp abbiamo sempre seguito la filosofia del “fai fin che puoi con le tue risorse, senza contare su nessun aiuto esterno”. Abbiamo così creato un modello vincente, basato su piccoli numeri, ma vincente. A quel punto i capitali sono arrivati, e non abbiamo dovuto neanche bussare alla loro porta. Oggi ci prepariamo per il secondo Round di investimento con nuovi prodotti nel portfolio.
La decisione di andare a Milano per studiare all'Università nasce dall'esigenza di avere una formazione più gobale?
Volevo studiare economia e management e la Bocconi di Milano viene vista come un’eccellenza in Italia per questo tipo di studi. Così decisi di fare i test di ammissione. Li feci contemporaneamente anche alla Luiss di Roma. Andarono entrambi bene, ma il network internazionale della Bocconi e la possibilità di una carriera all’estero mi convinsero. Inoltre, pensavo fosse importante anche l’ambiente in cui si trovava l’università (Milano) e non mi sbagliavo. Ovviamente ai tempi non contemplavo l’opzione estero direttamente per gli studi, ma se oggi potessi tornare indietro, direi che una triennale in Italia e un master all’estero sarebbe la scelta ideale. Specie se in una buona università conosciuta in Europa come la LSE. Oppure, se si vuole andare negli Stati Uniti, fare il master direttamente lì credo sia la scelta migliore.
Chi e cosa hai lasciato in Sicilia?
Siracusa è una bellissima città, ma come tante altre bellissime città in Sicilia ha il grosso problema di non reggere la competizione con città come Milano e, personalmente, Milano non regge la competizione con città come Londra o Berlino. Così come, se vogliamo continuare, Berlino e Londra credo non siano ai livelli di New York. Ovviamente poi questo andrebbe rivisto sotto un’ottica personale, non credo nelle regole generali, ma se parliamo in media penso vada bene. Stiamo parlando di connessioni, opportunità, capitali, un mercato pronto… che sono poi le caratteristiche che aiutano a far crescere una startup.
Quando torni come ti vedono i tuoi amici?
Dipende. Per alcuni ho fatto bene ad andare via e riprendendo un po’ il discorso di Renzi: meglio un grande italiano all’estero che un piccolo italiano in Italia. Per altri bisogna restare a tutti i costi e provare a cambiare le cose. Il mio pensiero sta in mezzo. Le cose puoi cambiarle anche portando esempi di buona Italia all’estero o creandoti un bagaglio di esperienze utile per aiutare il tuo paese anche dall'estero (come sto facendo, anche collaborando con alcuni incubatori e acceleratori di impresa in Italia, oltre ad avere il mio incubatore personale, Reboot Founders).