In occasione della giornata dedicata al dibattito sulla diffusione e ricezione della letteratura italoamericana dalla Cattedra Theresa and Lawrence R. Inserra Endowed, la professoressa Teresa Fiore, chair della cattedra Inserra per gli studi italiani e italo-americani, si è resa disponibile per un’intervista sul tema. Approfondendo l’argomento e commentando la presentazione dei due libri Italoamericana: The Literature of the Great Migration e Poets of the Italian Diaspora. A bilingual anthology, avvenuta presso la MontClair State University lo scorso 2 Ottobre, Fiore ha ampliato lo sguardo sul fenomeno declinandolo in una prospettiva storica e intimista.
Professoressa Fiore, a suo avviso, quanto c’è dell’immagine dell’Italia all’estero in questi due libri presentati oggi?
Insegnare l’Italia significa anche insegnare la diaspora italiana, altrimenti c’è qualcosa che resta incompreso. Come diceva Tamburri, l’emigrazione e gli stranieri in Italia, oggi, sono due cose che leggiamo e che possono essere collegate. Ci danno il senso di come il nostro Paese sia stato poroso in entrambe le direzioni, nel perdere come “nel ricevere”. Cerchiamo di aprirci a programmi anche sulla storia italoamericana oltre che sul cinema, sulla letteratura, sulla storia del cibo, mantenendo un occhio attento, critico, perché molto spesso la rappresentazione degli italoamericani sembra essere piuttosto piatta: o negativa o positiva per compensare la negatività. Ci rappresentano come criminali, rappresentiamoci invece come brave persone che ce l’hanno fatta. In mezzo c’è tutto un mondo creativo, di artisti, di scrittori, di registi, che non sono né interessati a sminuire gli italiani, né a celebrarli, ma a rappresentarli nella loro complessità, con le loro contraddizioni. E’ questo il tipo di discorso che ci interessa fare, che è insieme più interessante e più vero.
La difesa della letteratura italoamericana va anche di pari passo con la difesa della lingua italiana in America?
Queste due opere di cui oggi si è parlato sono più rivolte al passato, direi un lavoro d’archivio, in cui è forte la manifestazione di un mondo fortemente ancorato alle sue radici. Nella prima antologia si parla di persone provenienti dall’Italia che hanno mantenuto vivo il rapporto, nella seconda, invece, si trattano immigrati più recenti che tuttora mantengono viva questa relazione. Temo non sia una letteratura che possa circolare ampiamente, quella del passato circolava molto di più, abbiamo visto gli interventi sulle riviste di un tempo, quelle in cui si pubblicava in italiano. Esistono anche oggi, ma hanno una diffusione diversa, perché il rapporto con la lingua inevitabilmente si è perso.
A chi si rivolge, allora, questa letteratura?
E’ più facile che questi testi vengano letti da italiani o italianisti o studenti di italiano, che dalla comunità italoamericana. Ed è per questo che le due antologie in traduzione sono così importanti, perché mantengono l’italiano originale, ma si aprono a un pubblico che parla inglese.
Se invece dovessimo trovare un elemento di frattura tra la prima e la seconda ondata migratoria, se così possiamo definirle, quale sarebbe?
E’ sicuramente rinvenibile tra la prima e la seconda Guerra Mondiale, quando ha iniziato a circolare un manifesto che recitava “Don’t speak the enemies language!”. Gli italiani hanno cominciato a temere di poter esser identificati come spie e hanno smesso di parlare la loro lingua. Non si può dire sia stata l’unica ragione, ma sicuramente è un fattore di rilievo che si è innestato con la battaglia di Pearl Harbor nel ‘41.
Questo episodio ha causato un senso di vergogna nella comunità italiana in America?
Certo! Un senso di vergogna che si è aggiunto a quello storico, dal momento in cui ci hanno sempre rappresentato come poveri, ignoranti, criminali. Da qui ne é sorta, però, una forte spinta a farcela, a inserirsi, a integrarsi. Quella del ‘41 è davvero una linea di distinzione ufficiale. Se la sua era la lingua del nemico, l’italiano ha preferito sentirsi americano, perché magari in America da tanti anni, perché possedeva lavoro e famiglia. Da allora è stato molto difficile riprendere la lingua che però non è mai morta, è stata insegnata nelle scuole, ha conosciuto dei momenti di grande e florido rigoglio e ora continua a essere parlata in America.
Può la letteratura italoamericana cercare di fare qui quello che una volta faceva la lirica in tutto il mondo, diffondendo nei teatri e nelle opere, insieme al prestigio, anche la lingua?
Il desiderio di sviluppare la lingua italiana verso il futuro c’è, ma non sono convinta che abbia a che fare con la volontà di rendere la lingua italiana “di tutti” in maniera vasta, anche se forse dovrebbero dircelo gli stessi autori. Tuttavia, non si tratta di movimenti o cenacoli, non sono circoli di poeti, piuttosto figure indipendenti, non legate a un movimento di promozione della lingua italiana. Non è escluso che si possano utilizzare a questo scopo, ma credo questa sia un tipo di ricerca più intimista che altro. Trovo comunque una possibilità interessante quella di inserirli in una prospettiva di rilancio della lingua italiana. Vedremo come vanno i libri.