Dopo sette anni dal suo precedente film, Roy Andersson torna con l'ultimo capitolo di una trilogia introdotta nel 2000 da Songs from the Second Floor e proseguita sette anni dopo con You, the Living.
A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence (En duva satt pa en gren och funderade pa tillvaron), in concorso a Venezia 71 si serve ancora una volta di una serie di tableaux vivants realizzati tutti in un take. Sono 39 i segmenti che fungono da riflessione sulla condizione umana del regista svedese, che attraverso il grottesco Felliniano è stato definito dal Village Voice uno “slapstick Ingmar Bergman”. In effetti con la sua camera fissa, dalla prospettiva aerea-piccionesca, e il suo umorismo raggelante di impronta Beckettiana, ci conduce attraverso una pinacoteca di obbrobriosi esseri umani, sdrammatizzati da un feroce umorismo
In questa intervista Roy Andersson racconta a La VOCE di New York il suo cinema:
I temi trattati nella tua trilogia riescono a coniugare drammaticità ed umorismo..
Amo la tragicommedia, ci sono sempre due facce della stessa medaglia, una combinazione di tragedia e commedia. Così è la vita.
La visione del film è in qualche modo apocalittica?
Credo che oggi manchi la compassione, che viene troppo spesso repressa dal mercantilismo. Penso alle riflessioni del filosofo Emmanuel Lévinas sull'esteriorità, al di là dell'essenza.
Per questo tutti gli attori sono truccati con volti bianchi cadaverici, anche per evocare una sensazione di aldilà?
Non sono religioso ma mi piaceva evocare una sensazione di purgatorio, di sospensione. Il mio obiettivo era anche di rendere tutti omogenei per creare qualcosa di universale, dove non ci fossero distinzione del colore della pelle; in una dimensione senza tempo, un po' come nel teatro giapponese, Nō e Kabuki.
Quanto ti ha influenzato la storia dell'arte nel tuo stile?
Da sempre ho avuto una grande ammirazione per i pittori dal Rinascimento al Neue Sachlichkeit, conosciuto anche come Nuova Oggettività. In particolare Otto Dix e Georg Scholz, due tedeschi degli anni '30 che hanno un tratto grottesco che cattura la realtà con efficacia. Volevo ricreare con i miei film quell'atmosfera speciale tra l'uomo e lo spazio: l'essere umano può mentire, ma l'ambiente circostante rivela sempre la realtà. Anche Bruegel Il Vecchio è stata fonte d'ispirazione per questo film, specialmente il dipinto Cacciatori nella neve, dove il paesaggio innevato è popolato da tre cacciatori e i loro cani, racchiude fantastiche allegorie sui vizi umani. Amo molto come Bruegel nei suoi dipinti adottasse una prospettiva aerea.
Per quanto riguarda la letteratura, Cervantes sembra aver ispirato una coppia di personaggi…
Sicuramente i due commessi viaggiatori sono una sorta di Don Chisciotte e Sancho Panza: uno visionario e l'altro scettico ma lazzarone. Per i loro personaggi mi sono anche ispirato a Stanlio e Ollio, nel modo in cui falliscono continuamente nella loro arrampicata sociale. Alcuni hanno paragonato il mio umorismo a quello di Monty Python, ma a dire il vero lo trovo eccessivamente stereotipato.
A livello tecnico come è stato abbandonare la pellicola a favore del digitale?
Sono felice. In principio ero un po’ prevenuto, ma sono rimasto entusiasmato da come velocizzi le tempistiche di lavorazione e si possa vedere immediatamente come è venuta la scena.
In quanto regista svedese è inevitabile chiedere come ti rapporti a Ingmar Bergman….
Quando ho frequentato la scuola di cinema in Svezia, Bergman era il preside. Ricordo che mi chiamò nel suo ufficio, era furibondo perché aveva scoperto che avevo utilizzato la macchina da presa da 16mm per riprendere una protesta contro la Guerra in Vietnam. Era profondamente di destra. Mi minacciò di stroncare la mia carriera, se avessi continuato ad essere attivo in politica. Ma avevo 24 anni e non mi lasciavo intimidire facilmente. Infatti eccomi ancora qui.
Complimenti, posso farti una foto per l'articolo?
Certo, Facciamoci un selfie!