Le braccia tese verso l’alto, una canotta bianca, occhi coperti da occhiali da sole fucsia, i capelli afro e tra le mani un cartello. Ho saputo dell’esistenza di Ali Delan così, guardando un video del New York Times dal titolo Standoff in Ferguson sulle proteste di Ferguson, sobborgo di St. Louis in Missouri. Il cartellone, scritto a mano con un pennarello nero, chiede risposte per quell’uccisione di Michael Brown Jr. da parte della polizia, episodio che il 9 agosto ha gettato la popolazione nello sconforto tramutato in indignazione prima e rabbia poi.
Ali Delan, che abita a Florissant, paese confinante con Ferguson, vuole risposte per quella morte così dubbia che le diverse autopsie non sono riuscite a chiarire e che nasconde conflitti fino ad ora mai sfociati in città ma da sempre irrisolti, come il difficile rapporto tra polizia e membri della comunità afroamericana. Ma chiede allo stesso tempo di essere ascoltata. Sul cartellone, infatti, aggiunge il suo contatto sui social network. La cerco su Instagram e in un attimo mi trovo davanti alle immagini del suo attivismo, ai suoi slogan che iniziano con “Excuse me” e chiedono giustizia, uguaglianza. Decido di avviare con lei una chiacchierata virtuale, mi mostra la protesta dal di dentro, senza esclusione di colpi, sceglie di non parlare di Obama, anche se provo a chiederle che cosa pensi delle dichiarazioni del presidente: avrebbe dovuto forse essere più fermo nella sue dichiarazioni, più convinto nella presa di posizione? Non risponde nemmeno alla mia domanda sul significato dell’elezione di un presidente afroamericano. Preferisce tratteggiare i contorni di una situazione che nella comunità resta difficile, va in profondità su un’uguaglianza tanto decantata ma ancora assente e quelle risposte che restano solo nebulizzate sembrano non servire più.
Tutto questo accade mentre i giorni passano e le notizie di cronaca su Ferguson si inseguono. Coprifuoco notturni non rispettati, polizia in assetto da sommossa “quasi fosse una guerra – dice Ali – resta da capire però contro chi”, l’aria che diventa sempre più tesa, che nemmeno voli di sassi e lacrimogeni riescono a squarciare o sciogliere, feriti, un centinaio di arresti. Emerge il nome dell’agente-omicida Darren Wilson e la tensione continua a salire fino ad una nuova uccisione, poco lontano, a Louis del venticinquenne Kajieme Powell. Lo chiamano conflitto razziale ma chi in quei 12 giorni di protesta sfila pacificamente al fianco di tante etnie diverse non ci sta, e propone una visione diversa. “Perché è tempo di svegliarci: siamo stati vittime di una grande semplificazione, storica, sociale, che però è sbagliata. Saremo anche liberi ma non lo siamo del tutto, la nostra è una schiavitù psicologica e una libertà incompleta non è libertà affatto”.
Per capire che sentimenti sono eruttati a Ferguson dopo la morte del diciannovenne Michael Brown avrei potuto rivolgermi ad un sociologo, ad uno storico, a qualcuno che mi spiegasse i contorni di rivolte che negli anni hanno dato voce a frustrazione e malcontento in diversi punti degli States, a qualcuno che mi parlasse dell’odio razziale. Scelgo però di non farlo e virtualmente ascolto la voce di Ali Delan, una ragazza come tante altre che ha scelto per qualche giorno di non andare al lavoro per alzare una voce più forte dei soprusi.
“Ve l’hanno venduta come l’ennesimo conflitto tra bianchi e neri e invece questa è stata una protesta che ha rotto le barriere razziali di chi tutti i giorni vive gomito a gomito”.
In che senso Ali? Spiegaci meglio.
“La comunità di Ferguson è una comunità suburbana come tante altre. La zona invece è stata classificata dai media con parole tipo ghetto o slum. Niente di più falso. Questa zona è piena di realtà produttive, piccole imprese gestite da diverse minoranze dove lavorano professionisti che risiedono qui da anni. L’area dove vivo io assomiglia molto a questo quartiere. Si tratta di una comunità tranquilla che è scesa in strada per protestare in modo unito e coeso. I manifestanti che, come me, hanno preso parte alle manifestazioni in modo pacifico e senza armi erano costituiti da tutte le etnie ed anzi, lo sfilare assieme ha unito tutte le minoranze in un’unica grande voce”.
In uno dei tuoi cartelloni hai scritto “Non è mai stato un problema di razza, religione, convinzione politica. È tutta una questione di pensiero individuale”. Come mai non pensi che alla base ci sia anche un problema razziale?
“Ciò che penso è che siamo accecati dagli inganni. Faccio un esempio su tutti: parliamo della stigmatizzazione bianchi versus neri. Pensate al colore bianco come lo conoscete nella scala dei colori. Ora pensate al colore nero e chiedetevi: ho mai visto un uomo veramente bianco? E ho mai visto un uomo veramente nero? Si parla di uomini bianchi e neri perché abbiamo accettato la semplificazione che le persone con più melanina siano neri e quelli con meno melanina siano bianchi, l’abbiamo accettata come una verità di fatto quando invece è solo una grande falsa semplificazione. E anche se ne siamo consapevoli continuiamo a classificarci in bianchi e neri. Quanto diverso sarebbe il nostro mondo se fossimo in grado di eliminare questa falsa verità dal nostro dizionario?”.
Punti sull’importanza che ognuno pensi con la propria testa anche di fronte alla notizia dell’uccisione del diciannovenne Michael Brown, del quale si sono appena celebrati i funerali.
“È un aspetto fondamentale. La notizia inizialmente è stata, se non manipolata, indirizzata. La mia convinzione personale è che i media abbiano davvero il potere di controllare le masse, basta un particolare ordine nel dare le news e l’opinione pubblica viene influenzata. Alcuni mezzi di comunicazione tra le emittenti locali e nazionali hanno inizialmente dato la notizia come se il poliziotto non avesse potuto comportarsi diversamente dall’uccidere. A questo si sono aggiunte campagne diffamatorie contro il ragazzo defunto quasi come se criminalizzarlo volesse dire renderlo responsabile della sua morte. E invece è facile trovare la verità e percepirla su base individuale: un uomo disarmato è stato ucciso in mezzo ad una strada nelle ore centrali della giornata a parecchia distanza dal suo carnefice. Cosa c’è da sapere ancora? Nulla, a meno che non si venga distratti da dettagli che guidino altrove. È stato un vero e proprio crimine d’odio”.
Durante la protesta che cosa diceva la gente per strada? Che cosa ha chiesto la comunità afroamericana?
“Ciò che ho visto è stata una grande manifestazione di unità tra tutte le nazionalità, a prescindere dal fatto che fossero residenti di Ferguson oppure no. L’amore è stata la nostra più grande arma. Abbiamo chiesto giustizia anche se per ognuno giustizia significa un qualcosa di diverso. La maggior parte delle persone che hanno sfilato con me hanno chiesto una chiara condanna per omicidio per l’agente Darren Wilson (che invece conta diverse pagine Facebook con decine di migliaia di sostenitori, nda). I cittadini con più melanina, comunemente noti come neri o afroamericani, chiedono una vera libertà e uguaglianza. Una libertà incompleta non è libertà affatto. Chiediamo anche di avere degli ufficiali di polizia e funzionari al potere che ci rappresentino davvero. E invece le loro armi in dotazione, il loro assetto da guerra rappresentano una dichiarazione tacita che prevede uno spargimento di sangue. Questa protesta per noi è stata l’inizio di un risveglio di gente che è stata a lungo docile e passiva e che ora invece vuole ottenere la vera libertà”.
Ma non è stato tutto amore, si sono anche visti diversi saccheggi e gruppi di criminali che si sono nascosti tra chi protestava pacificamente.
“Dopo la scomparsa di Michael Brown la strada principale di Ferguson, West Florissant, è diventata a dir poco una zona crivellata da disordini e saccheggi. Gli autori sono stati in primo luogo estranei non residenti a Ferguson. Sono stati furti, crimini di opportunità ma c’è chi ha parlato anche di agenti in borghese che hanno lanciato bottiglie contro gli agenti in uniforme. Non l’ho visto in prima persona, ciò che però ho provato sulla mia pelle è stato un fucile puntato addosso anche se eravamo manifestanti silenziosi che non avevano fatto nulla per incitare le minacce. È stato orribile eppure in qualche modo è stato anche illuminante sulle dura realtà che ancora ci circonda. Non potrò mai dimenticare quel gesto e se chiudo gli occhi riesco a vederlo ancora quel fucile. Non posso pensare cosa provi Doran Johnson, l'amico che camminava con Brown quando è stato giustiziato davanti ai suoi occhi”.
Come mai hai scelto di partecipare alle proteste? Che cosa ti ha spinto?
“Ho deciso di prendere parte alle manifestazioni e proteste dopo la morte di Michael Brown Jr. perché sentivo che sarebbe potuto succedere a me. Le espressioni di brutalità della polizia sono diventate ormai la norma per le persone con melanina più scura, non solo a Ferguson ma anche nella mia zona. È un’epidemia che si sta allargando con ritmi allarmanti in tutti gli Stati Uniti: le persone di colore stanno diventando vittime di un sistema che giustifica costantemente la brutalità della polizia o l'uso eccessivo della forza. Eric Garner, Kajieme Powell e John Crawford sono state solo alcune delle vittime più recenti i cui omicidi sono stati commessi da chi invece ha giurato di servire e soprattutto proteggere. I cittadini di Ferguson temono la polizia. Pretendiamo di aver superato le questioni razziali ma se sei di colore devi sempre continuare a sfuggire gli stereotipi altrui, cercare di evitare zone dove la tua presenza non è accolta poi così favorevolmente o ti devi adattare ad una comunità che non necessariamente ti dà il benvenuto. Come nazione dobbiamo avere il coraggio di riconoscere la situazione attuale”.
Secondo te, quale potrebbe essere una soluzione per la situazione di Ferguson, ora che si sono placate le proteste?
“La tensione ha raggiunto il suo punto di ebollizione in questa piccola comunità. La comunità, aiutata da diverse organizzazioni, si è immedesimata nel dolore della famiglia di Brown, ci sono stati volontari che le mattine dopo il caos hanno ripulito le strade e fornito cibo e acqua ai manifestanti. In un certo senso questa tragedia ha unito una comunità e ha rotto alcune barriere razziali tra gente che si incontrava tutti i giorni. Più leader della comunità si sono fatti avanti per aiutare a trasmettere le preoccupazioni dei residenti alle autorità. Io personalmente credo che i residenti debbano andare al voto ed essere partecipanti attivi nello scegliere i loro rappresentanti e funzionari. Questo sarà cruciale per il futuro di Ferguson”.
I libri di scuola in Italia ci insegnano che gli Stati Uniti sono l’esempio perfetto del melting pot, ma tu oggi ci hai raccontato una realtà diversa.
“Gli Stati Uniti rimangono l’esempio del melting pot ma come diceva il compianto Martin Luther King “l’odio non può sradicare l’odio, solo l’amore può farlo”. Purtroppo esistono alcune persone che categorizzano dei gruppi sulla base dei pregiudizi, ma questo accade in tutti i paesi e non solo negli States. Ciò che posso dire è che a causa della storia opprimente che gli afroamericani hanno vissuto negli Stati Uniti per noi è difficile in generale. Stiamo ancora lavorando per raggiungere il sogno di Luther King e non ce l’abbiamo ancora fatta. Come nazione abbiamo bisogno di uscire dal percorso dell’odio. Il punto è che non esiste una formula specifica per guarire un mondo pieno di divisioni, odio, esclusioni e discriminazioni. Ciò che possiamo fare è guardarci allo specchio e iniziare da noi stessi. Dobbiamo ripeterci che è tempo di cambiare ed essere disposti a fare ciò che serve affinché si verifichi quel cambiamento che vogliamo vedere”.