Rimane folgorato dalla Grande Mela all’età di sedici anni durante un viaggio studio. Già da liceale, Luca Nostro, musicista quarantenne romano, sapeva che New York sarebbe entrata nella sua vita. Messa da parte la sua laurea in giurisprudenza, Luca preferisce ai tribunali i jazz club, i palchi musicali, le note piuttosto che i faldoni degli avvocati.
Chitarrista e compositore, si diploma all’Università della Musica specializzandosi in jazz con Fabio Zeppetella. Ha registrato quattro dischi a New York, di cui tre come leader con alcuni dei più importanti musicisti della scena mondiale come Donny Mc Caslin, Scott Colley, Antonio Sanchez, Mark Turner, Dan Weiss, Tyshawn Sorey, John Escreet, Joe Sanders e si è esibito in alcuni dei più importanti club e festival internazionali come lo Small’s e lo Shapeshifter Lab a New York, La Casa del Jazz a Roma, il Blue Note a Milano.
Riduttivo definirlo un jazzista, quanto piuttosto un musicista e compositore che abbraccia il jazz e la musica a trecentosessanta gradi: sperimentale, avanguardia, contemporanea, classica, elettronica, d’improvvisazione. Tanto da far rientrare nelle sue collaborazioni artisti così diversi come Ute Lemper, Piero Pelù, Lola Ponce. Nella scena della musica contemporanea Luca fa parte di una delle più importanti orchestre europee, il Parco della Musica Contemporanea Ensemble (PMCE) orchestra residente dell’Auditorium Parco della Musica a Roma.
Vive tra Roma e New York dove ritorna spesso per farsi assorbire dal fluido della musica e della città. Un ponte che ha costruito con gli anni e che lo ha fatto crescere musicalmente e umanamente. Ci racconta una New York che dal punto di vista musicale sta cambiando, forse si sta europeizzando e perdendo la vitalità che aveva un tempo. Una ciclicità storica alla quale non possono sottrarsi le grandi metropoli. E nonostante tutto, questa città resta senza dubbio il centro del mondo.
Come e perché sta cambiando New York nella scena musicale?
Rispetto ai primi anni del duemila, i locali sono più vuoti e musicalmente la sento più europea e meno sperimentale come prima. Credo cha abbia a che fare con un percorso inevitabile al quale tutte le città sono sottoposte. New York ha conosciuto tempi migliori. Non solo gli anni Settanta quando in questa città, per una serie di fattori sociali e politici, sono successe delle cose incredibili ed irripetibili, ma anche rispetto agli anni novanta. Vedo un calo di energie anche se questo resta un posto unico dove suonare, conoscere gente e crescere musicalmente. Non immagino altre città. Forse Londra per il mondo delle produzioni o Berlino per la musica elettronica.
La nuova frontiera musicale di New York è allora difficile definirla in questo momento?
New York racchiude tutto: jazz, folk, musica sperimentale, d’avanguardia. Dovrebbe riprendere in mano quel ruolo di guida e di interprete della musica contemporanea.
Cosa significa per un musicista italiano vivere l’esperienza newyorchese?
In America e a New York soprattutto i grandi musicisti suonano tantissimo e con molta umiltà. Li vedi nei grandi palchi, nei mega teatri ma anche nei club impegnati nelle home session insieme a studenti e musicisti non ancora conosciuti. A me è capitato di suonare con il batterista di Pat Metheny ad esempio. I musicisti in America sono meno individualisti, più solidali, rispetto all’Italia. Tutto nasce e comincia prendendo uno strumento in mano e cominciando a suonare. Musicalmente poi, in America c’è più contaminazione dei generi. I musicisti sono meno “ortodossi” mentre in Italia se fai jazz classico non puoi fare musica sperimentale. L’idea del jazz in Italia e quella di una musica per solisti mentre in America è più comune il concetto delle grandi band. Tutto è molto più rigido, ingessato, come noi italiani. Anche se, devo dire che le cose stanno cominciando a cambiare anche in Italia dove ci sono musicisti molto talentuosi.
Il pubblico invece lo trovi diverso?
Molto più preparato di quello italiano e per vari motivi. Prima di tutto perché la musica è una parte importante nel curriculum scolastico sin dalle scuole elementari. Sono abituati a suonare, a leggere la musica, a viverla come parte del quotidiano. La musica è sempre fatta bene: dalla produzione alla registrazione tutto è curato nei minimi dettagli. È assurdo pensare che in Italia, con tutto il nostro patrimonio musicale e culturale, non riusciamo a trasmettere la musica come strumento di conoscenza e a valorizzarla. In America, anche i ragazzini del liceo sono in grado di leggere ed interpretare uno spartito. Per un musicista, New York è fondamentale perché è proprio il contatto con il pubblico che ti fa crescere, l’interazione e lo scambio. La musica esce fuori dagli spartiti e diventa vita.
Rimane però difficile anche per i musicisti vivere a New York e farsi strada, tra i costi altissimi e le paghe basse.
La realtà dei club è molto più precaria rispetto all’Italia. I musicisti vengono pagati spesso ad incasso, a percentuale. Però la differenza è che la musica è un lavoro vero e proprio e si suona tantissimo. Ad esempio, una cosa tipica newyorchese sono le serate musicali riservate ai grandi musicisti due volte a settimana in spazi musicali della città. New York è un laboratorio e anche un ponte verso l’Europa. Alla fine chi passa da qui, musicalmente richiama l’attenzione degli operatori musicali europei.
Il jazz ha radici americane ma ha trovato strade anche in Europa. Resta ancora grande la differenza tra jazz europeo e americano?
In Europa il jazz è più classico e meno sperimentale, più interattivo. In America vedi jazzisti improvvisare con rapper. In Europa rimane ancorato all’idea di musica di accompagnamento, d’elite. I jazzisti americani, ascoltano tutto e mettono molti stili insieme in maniera sperimentale e creativa. A New York la musica è aperta e senza etichette. Anni fa al St. Nick's pub ad Harlem ho visto un concerto dove a un gruppo jazz che suonava alla Coltrane si è aggiunto il barista che ha cominciato a rappare Free Style sull'uragano Kathrina. Mentre noi vediamo il rap e il jazz come distinti qui li vedono come due aspetti di una cosa più originaria e primitiva.
Ai musicisti italiani, tanti, che vogliono sbarcare a New York, cosa consigli?
Mischiarsi, lasciarsi contaminare. L’ identità italiana è molto forte e facilmente la puoi trovare. Per questo consiglio, inizialmente, di frequentare poco gli italiani. Lasciarsi trascinare e guidare da New York e dalle sue condizioni. Venire qui con umiltà, senza pregiudizi; disposti a farsi cambiare. New York è come una grande mamma che abbraccia tutti. Più che una città è una realtà a volte impersonale che diventa un grande respiro collettivo.
Il 26 suonerai all’Istituto Italiano di cultura di New York dove porterai un progetto interessante.
Electric guitar in My life è un progetto di musica contemporanea nato pensando ai compositori italiani ed americani. Ci sarà un pezzo di Steve Reich e di David Lang, due grandi compositori americani. Non mancherà un omaggio a Maurizio Pisati, Michele Tadini e a Fausto Romitelli, compositore italiano morto a 40 anni. Molta musica elettronica e musica contemporanea.
Prossimamente usciranno due album: Electric Posh per la Nau Records registrato con il trombettista Luca Pietropaoli e Are You Ok?, in corso di pubblicazione per Jandomusic, registrato a New York con Donny McCaslin, John Escreet, Joe Sanders, Tyshawn Sorey.
Se dovessi racchiudere New York in una nota?
Si bemolle perché è una nota/tonalità molto usata nel jazz, e New York è il centro del jazz.
E in una musica?
A New York associo tre cose: la musica del rapper Raekmon, un mio pezzo che si intitola Ulrich pensato, scritto e registrato qui, e Arrows and Loops di Ari Hoenig.