Di New York le manca “l'incredibile energia della città e l'entusiasmo delle persone ad intraprendere nuove avventure professionali ed artistiche”,”la sensazione nell'aria che tutto sia possibile”, anche se dopo sette anni nella Grande Mela, ha deciso di trasferirsi a Roma perché “era la città per eccellenza in Italia dove si faceva il cinema”.
Scrittrice, giornalista, sceneggiatrice, regista, documentarista, Mariarosy Calleri è anche ambasciatrice dell'imprenditoria femminile del Lazio alla commissione europea e presidente dell’Associazione R.O.S.A. – Remove Obstacles to Social Awareness dedita all’istruzione, alla cultura e alla cittadinanza europea.
Da Catania, dove è nata, si trasferisce a Milano quando era ancora in fasce. Nel capoluogo meneghino si laurea in lingue e letterature moderne allo IULM, ma subito dopo vola a New York per conseguire il Master of Arts in regia cinematografica e televisiva presso la New School University.
Giornalista per Il Sole 24 Ore e per la RAI Corporation di New York, si avvicina alla scrittura cinematografica e ai documentari incentrati soprattutto sulla rappresentazione dell’universo femminile e sull’esperienza dell’immigrazione italo-americana.
Oggi, sta lavorando al suo primo lungometraggio per la sala, Guardando Ovest con cui affronta il tema della violenza sulle donne da un punto di vista universale. Un film dalla gestazione lunga, visto che già sin dal 2001, il personaggio di Rosa, la protagonista, aveva preso forma nella scrittura e nella sceneggiatura.
Una storia universale, con un cast top secret (è probabile che ci sia Donatella Finocchiaro tra le attrici), ma che ha dei luoghi specifici: la Sicilia di Mariarosy. Quella che vive nei ricordi, nel profumo della sua infanzia. Una Sicilia terra di popoli e di confine. Il suo è un viaggio di ritorno, senza aver mai abbandonato quel ponte culturale e non solo cinematografico, che lega l’Italia all’America.
Guardando Ovest è un film che vuol contribuire alla prevenzione e alla lotta contro la violenza sulle donne con uno sfondo storico ben preciso: il decennio tra il 1935 e 1945 e l’immigrazione italiana verso l’America.
Una grande storia d’amore che abbraccia due continenti, Europa e Stati Uniti, nel decennio tra il 1935 e il 1945; in mezzo, uno stupro non denunciato che separa due innamorati che si rincontreranno in una Sicilia molto cambiata. Il progetto – che si pone in linea con l’impegno dei governi europei e italiano – vuol contribuire alla lotta contro la violenza di genere: una campagna di prevenzione che coinvolgerà oltre 10mila scuole italiane ed europee, circa 2 milioni di studenti tra i 14 e i 24 anni, grazie alla promozione all’interno dei circuiti istituzionali. La Marden, la mia casa di produzione, ha scelto, per Guardando Ovest, il mezzo del crowdfunding. Il 50% del budget totale (pari a 700.000) è già stato coperto grazie anche al cofinanziamento della Sicilia Film Commission.
Due temi, immigrazione e violenza contro le donne, a te molto cari da sempre…
Io lavoro con le donne e con i temi che riguardano le donne da sempre. Nel mio percorso professionale ed umano mi sono occupata dei limiti dell’emancipazione della donna. Il problema non è solo femminile, ma riguarda tutta la società. La violenza domestica è un cancro sociale che fa male a tutti. Ho sentito questa storia dentro di me. Mi sono sentita chiamata da Rosa, la protagonista. Immigrazione perché mi riguarda personalmente visto che sono figlia di genitori del Sud che si sono trasferiti al Nord e io stessa sono andata a vivere prima a New York e poi a Roma.
Nella storia che hai scritto vuoi raccontare al pubblico cosa è cambiato oggi rispetto alla percezione e sensibilizzazione della violenza contro le donne. Cosa è cambiato?
Dal punto di vista legislativo e sociale tanto. Ci sono state conquiste legislative e molte lotte sociale e in più c’è più consapevolezza da parte delle donne. Oggi le donne sono protette da un tessuto sociale che le sostiene. C’è un messaggio di speranza nel mio film: Rosa, la protagonista, è sostenuta dalla comunità.
Hai ribadito il concetto della storia universale anche se il film sarà girato in Sicilia. Non pensi che ci sia il rischio di voler localizzare storicamente è geograficamente la storia?
In realtà, i luoghi dove girerò il film, tra i quali la Scala dei Turchi a Realmonte in provincia di Agrigento, erano nella mia mente prima ancora che li conoscessi. Io vengo dal cinema d’avanguardia, ma mi sono ispirata al neorealismo e alla sua fotografia in questo lungometraggio. Quella Sicilia, al centro del Mediterraneo, terra di arrivo e di partenza, è una cartolina universale. È una perfetta cornice poetica e lirica. Il problema non è solo siciliano. Nella mia storia si possono identificare tutte le donne di diversi continenti. Di certo, il film descrive una cultura patriarcale e io ho voluto rappresentare le dinamiche della società patriarcale che sono le stesse in tutto il mondo. Le sfumature, però, si possono declinare in linguaggi diversi. Il film, oltre a voler portare il problema al centro dell’attenzione partendo proprio dalle scuole, vuole anche valorizzare le bellezze siciliane.
Alla scrittura per il cinema sei arrivata anche grazie ad un incontro quasi casuale alla New School.
Ho incontrato Barbara Emerson, la vice provost della New School. Lei mi ha chiesto a cosa stavo lavorando e io le risposi che stavo scrivendo del mio incontro con il buddismo di Nicheren Daishonin. Le spiegai che trovavo molto interessante che degli italiani praticassero un buddismo giapponese a New York. Lei fu molto affascinata dall'idea e mi disse che aveva appena ricevuto un fax dal consolato italiano a New York che chiedeva se la New School avrebbe fatto qualcosa per celebrare il mese della cultura italiana a NY che cade ad ottobre. Pensò che quella sarebbe stata una cosa molto originale da offrire per quella celebrazione e mi chiese di portarle il budget lunedì (era venerdì) perché mi avrebbe finanziato la realizzazione del documentario. Io stavo semplicemente scrivendo una storia, non pensavo di farne un documentario, però colsi l'occasione e mi lanciai in quella nuova avventura artistica e professionale. La proiezione alla New School di KOSEN RUFU fu un successo, ne ripetemmo un altra alle Nazioni Unite per festeggiare il 50° anniversario dell'ONU. Alla fine del mio tirocinio a Il Sole 24 Ore, rifiutai di rimanere e intrapresi la mia carriera da filmmaker indipendente.
In Sicilia hai ambientato il tuo primo mediometraggio che hai realizzato quando studiavi alla New School. Il tuo essere siciliana, anche se hai vissuto lì per i primi quattro mesi della tua vita, in che cosa lo ritrovi?
Non ho mai vissuto in Sicilia se non in vacanza. Mi sento di non essere completamente siciliana, ma che lo è il mio modo di essere venuta e di stare al mondo. Mia madre mi dice sempre che “io sono la sua figlia siciliana rispetto a mio fratello che invece è nato a Milano”. Questo perché la fisicità del luogo dove nasci condiziona il tuo spirito. La Sicilia per me è un luogo ideale.
Poi New York, città che senti molto tua ma che hai lasciato. Perché?
Ero molto innamorata di New York, ma con il tempo mi sono disinnamorata. Probabilmente perché nel momento in cui ho pensato di avere una famiglia ho deciso che NY non era il posto giusto per fare crescere i miei figli. Di New York mi manca l'incredibile energia della città e l'entusiasmo delle persone ad intraprendere nuove avventure professionali ed artistiche,la sensazione nell'aria che tutto sia possibile.
Così hai compiuto un viaggio inverso. Sei tornata in Italia con tuo marito americano e originario del Belize.
Sì e non me ne sono mai pentita. Lui si è fidato di me e oggi con i miei due figli, Terence e Michele, rispettivamente di nove e undici anni viviamo a Trastevere. Per me è importante che i miei figli crescano qui con certi valori. Il modo di vivere italiano, nonostante tutto, è un modello ancora valido.
Fare cinema in Italia però non è facile…
Difficilissimo perché il cinema soprattutto quello sociale non è considerato un business. Chiedere il finanziamento per un film che ha un tema sociale è un’impresa ardua. Nel Belpaese per alcuni la cultura non porta soldi.