A suo modo geniale e ad alto contenuto politico, l’iniziativa che un’artista italiana, moglie di un nostro diplomatico, sta portando avanti, per sensibilizzare gli abitanti del pianeta sulla massa di rifiuti che si accumula negli oceani. L’architetto Maria Cristina Finucci ha iniziato a far circolare la sua idea a Parigi con l’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’istruzione la scienza e la cultura, e proseguito con altre istituzioni e città, passando per Roma lo scorso aprile con una installazione al MaXXI, il museo delle arti del nostro secolo.
Finucci è partita dalla consapevolezza che nei tre oceani, ma anche nel Mediterraneo, si sono formate vere e proprie isole di rifiuti, in particolare a base di plastica. Passo successivo, la creazione di un concetto che potesse essere trasferito in forma materializzata, tale da mobilitare sul piano simbolico le opinioni pubbliche e i governi.
Così è nato il progetto The Garbage Patch State Embassy e le installazioni che ne derivano. Viene diffusa consapevolezza dell’esistenza, negli oceani, di cinque isole artificiali, generate da attività e tecnologia umane. La loro estensione, pari per ora a 16 milioni di chilometri quadrati, corrisponde a poco meno della Russia. Le isole del Garbage Patch sono trasformate, dalla fantasia creativa dell’artista, in uno stato con tanto di bandiera e passaporti che, come fa da sempre ogni stato che si rispetti, ha un atto di fondazione (UNESCO, 11 aprile 2013), e apre ambasciate o rappresentanze dove venga riconosciuto. La finzione deve ovviamente tener conto delle differenze di natura tra lo stato classico e questo simulacro di stato, di fantasia, benché effettivo. Nel secondo regime, sono costituiti in cittadini gli oggetti della spazzatura oceanica. I loro passaporti sono attribuiti e consegnati ai cittadini del mondo che li adottano: a ciascuno un oggetto del patch e l’impegno a lavorare per le finalità di responsabilità sociale che li lega a quell’oggetto e all’insieme del progetto.
L’evidenza racconta che il progetto della Finucci, per riscuotere autentico e definitivo successo, dovrebbe riuscire a negare se stesso, riuscendo a farsi dichiarare non più necessario il giorno della disintegrazione dell’immondo patch. Perché la crosta di rifiuti non è soltanto schifosa, ma pericolosa. Pretende di essere sempiterna, perché formata da plastiche non biodegradabili che possono certamente sciogliersi nell’acqua marina attraverso il tempo per azione del calore solare, ma proseguono a permanere sotto il livello del mare in specie di micro materiali mimetizzati.
Fondazione e pubblicizzazione del nuovo stato forniscono il soggetto, simbolico e insieme concreto, attorno al quale aggregare consensi e azioni contro la minaccia ambientale che negli oceani colpisce la fauna marina, promettendo di minacciare presto anche le popolazioni umane. Nella mostra al MaXXI la porta dell’Embassy si è aperta a tanti curiosi, studenti, cultori d’arte, che hanno ritirato il loro passaporto e adottato uno degli oggetti destinati a perdersi nell’oceano, schedati e raccolti in migliaia di piccole icone affisse dentro l’ambasciata. Per Roma, Finucci ha anche predisposto un’installazione con milioni di scaglie in P.e.t. provenienti da bottiglie riciclate, composte in un’unica minacciosa onda marina di trenta metri.
Prossima, ambiziosissima tappa, il 29 settembre nella lobby del palazzo di Vetro a New York. Sarà la definitiva consacrazione del percorso di Embassy, nel cuore dell’organizzazione universale dei “veri” stati, sinora incapaci di misure coercitive e di effetto immediato sulla questione ambientale.
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