Quando arrivò a New York alla fine degli anni Cinquanta aveva otto dollari in tasca e una Leica che dovette vendere per 60 dollari per non morire di fame. Aveva conosciuto l’America attraverso i film di Charlie Chaplin, Tom Mix, Doris Day proiettati nei cinema di Messina, sua città natale, da dove partì per un giro del mondo che lo portò a New York.
Santi Visalli è il fotografo che più di ogni altro ha raccontato agli italiani e a tutto il mondo l’America dagli anni sessanta ai giorni nostri. Lo ha fatto e continua a farlo ancora oggi con uno stile personale, unico ed artistico.

©Brando Marlon, 11255 Roll 5 Neg 31 Crop, New York 1965. Foto: Santi Visalli
Un esordio da fotoreporter dove aver abbandonato gli studi in Economia alla NYU. Poi il fotogiornalismo, sua grande passione. Erano gli inizi degli anni Sessanta. L’Italia si stava ancora sollevando dalle ceneri del dopoguerra mentre l’America si scopriva una nazione forte e in pieno fermento. La guerra era finita e nasceva la middle class. Iniziava a formarsi la beat generation, la Factory di Andy Warhol, lo star system hollywoodiano, il movimento pacifista degli anni Sessanta e Settanta. New York rubava la scena alla Swinging London e si preparava a diventare il centro del mondo: fucina di artisti ed intellettuali.
Santi Visalli fotografa una nazione ricca, aperta, rivoluzionaria con un occhio obiettivo che non risparmia contrasti e incoerenze. Celebri i suoi scatti che regalano immagini intime di personaggi famosi consacrati in fotogrammi in bianco e nero nella sua raccolta Icons. Come una bellissima Jacqueline Bisset, una giovane Sofia Loren, un timido Robert De Niro ed un esuberante Andy Warhol. Nessuno si è sottratto al suo obiettivo: i Beatles, Federico Fellini, François Truffaut, Martin Luther King, Truman Capote, Marlon Brando, Jack Nicholson, i presidenti americani da Lyndon B. Johnson a Clinton.

©Felllini Federico, 9948, Roma, 1975. Foto: Santi Visalli
Per anni, Visalli si è guadagnato le prime pagine del New York Times, Life, Newsweek, Time, Forbes, Paris Match, l’Europeo, ha esposto nei più importanti musei e ha pubblicato per Rizzoli otto libri di fotografia dedicati alle città americane più importanti.
Oggi a ottantadue anni, sta lavorando ad un libro fotografico sulle piccole librerie specializzate negli Stati Uniti e nella sua casa di Santa Barbara, si è portato un pezzo di Sicilia. Alberi di ulivo, zucchine e pomodori. Guarda il tramonto sul mare e ogni giorno cerca la luce perfetta, quella che venti minuti dopo il tramonto regala la magia dello scatto.
Santi, la sua storia è una favola a lieto fine. Un happy ending dell’American Dream.
Direi proprio di sì. Ho lasciato Messina dopo aver preso il diploma all’Istituto tecnico. Ero molto povero al punto che in chiesa provavo vergogna ad inginocchiarmi per non mostrare le mie scarpe bucate. Anche a New York non è stato per niente facile agli inizi. Ho fatto mille lavori umili per guadagnarmi qualche soldo e ho sofferto doppiamente la discriminazione: come italiano e come siciliano.

©Bisset Jackie, 10127, The Deep Bermuda, 1976
I giornali americani mi chiedevano di fotografare solo gli eventi italiani mentre quelli italiani preferivano i grandi fotografi americani. La fotografia in Italia era ancora agli albori negli anni Sessanta. Ho imparato da autodidatta. Guardando gli altri e me. Pur conoscendo quattro lingue, con la scrittura non riuscivo ad esprimermi al meglio. Con il tempo i giornali apprezzavano sempre più le mie foto e meno il testo. Crescere in Sicilia mi aveva dato un vantaggio: la classicità della cultura greca e il senso dell’estetica.
Poi arriva lo scatto giusto. Il momento giusto. Quell’attimo che l’ha consacrata definitivamente tra i più grandi fotografi
La svolta arriva con il primo scoop, nel novembre del 1966. Truman Capote organizza, allʼHotel Plaza di New York, il Black and White Ball. Riesco a corrompere una delle guardie di sicurezza, arrivo nelle stanze della festa chiuso nel montacarichi e mi garantisco unʼesclusiva, pubblicata in Italia dalla Domenica del Corriere, negli Stati Uniti da Newsweek. Inizia l’ascesa. Il mondo del giornalismo e della fotografia si accorge di me.
Mentre tutti i divi e il jet set internazionale oggi la considerano un grande fotografo, l’Italia e la Sicilia, lei ha detto, non hanno riconosciuto il suo lavoro come avrebbero dovuto.
La solita storia. Nemo profeta in patria. Alla fine degli anni '80, ho offerto, al Museo di Messina la mia collezione ma la direttrice mi disse che il Museo non era attrezzato per la fotografia. Stessa cosa per Taormina, che ospita da anni un festival cinematografico. Ho nel mio archivio duemila ritratti dei più grandi attori e mai ho potuto realizzare lì una mostra. Negli anni scorsi l’istituto commerciale A.M. Jaci di Messina, dove ho studiato, mi ha dedicato il premio Jaci e io ho inaugurato una mostra con i miei scatti più belli alla Camera di Commercio. Nel 1996 sono stati insignito del riconoscimento come cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana e nel 2011 il presidente Napolitano mi ha inviato una medaglia di riconoscimento per la mia carriera.

©Loren Sofia, Ret-5226 Roll 1 Neg 27, New York, dicembre 1967. Foto: Santi Visalli
Centocinquantamila scatti in oltre mezzo secolo di storia. Ci sarà qualche scatto a cui lei è particolarmente affezionato. Una foto difficile da realizzare.
Non sono io che decido lo scatto migliore ma lo fa chi guarda, ammira, compra le mie foto. Mi piace molto il ritratto di Sofia Loren, e quello di Jacqueline Bisset, donna bellissima e intelligentissima. Uno scatto difficile è stato quello realizzato alle Torri Gemelle. Ho aspettato la luce giusta, volevo neutralizzare il background. Ci sono voluti oltre trecento provini per arrivare alla foto perfetta.
Ma qual è il segreto per lo scatto che immortala eternamente l’attimo?
Gli elementi essenziali sono tre. La luce innanzitutto. Ho imparato a guardare la luce attraverso la pittura rinascimentale. La composizione, che ho appreso dall’impressionismo francese, e infine il messaggio.
Qui veniamo alla differenza tra fotoreporter e fotogiornalista. Lei è un po’ entrambi anche se si definisce “descrittore dell’anima” perché nei suoi scatti sembra voler ritrarre una psicologia umana ben definita.
Il fotoreporter deve descrivere la realtà così come la vede, in maniera obiettiva, il fotogiornalista invece deve veicolare il messaggio, filtrarlo. Io amo l’animo umano e con il tempo ho imparato a conoscerlo bene attraverso i fotogrammi. Ho fotografato tutti, dalla first lady alla bag lady. Spesso, con i vip è stato più difficile perché loro avevano paura che io tirassi fuori un lato che non volevano mostrare. Mi sono anche dedicato ai paesaggi urbani perché credo nel ruolo importante dell’architettura e dell’architetto.

©De Niro Robert, 9606 Roll 3 Neg 13, New York 29 novembre, 1973. Foto: Santi Visalli
Tra tanti personaggi famosi, chi l’ha particolarmente colpita? C’è stata una foto con cui lei è riuscito a far emergere un lato inedito, sconosciuto al pubblico?
Mi ha colpito l’intelligenza di Jacqueline Bisset. Poi ho capito subito, quando il mio obiettivo ha incrociato lo sguardo di Martin Luther King, che sarebbe diventato un grande. Robert De Niro era piuttosto timido mentre Allen Ginsberg l’ho fotografato due volte. La prima volta in un raduno hippie, la seconda volta, dopo alcuni anni, in una veste nuova e completamente borghese. Proprio lui che si era fatto portavoce dell’antiborghesia.

Monroe Marilyn’s grave Westwood Memorial Park, Westwood LA, 13 ottobre, 1990
Lo scatto che non ha mai realizzato e che avrebbe voluto realizzare?
Non sono riuscito mai a fotografare Marylin Monroe. Ho fotografato la tomba dove Joe di Maggio ogni giorno portava una rosa gialla.
È stato anche il fotografo personale di Michele Sindona. Che approccio ha usato con lui?
Quando fu arrestato, il Time voleva realizzare un servizio in prigione. Sindona pose la condizione che fossi io a ritrarlo. Aveva fiducia in me, anche se al nostro primo incontro si impaurì. Dovevo scattargli una foto vicino alla finestra di un trentaquattresimo piano di New York. Mi sono avvicinato a lui, lʼho visto irrigidirsi. “Devo solo misurare la luce”, gli spiegai. Penso abbia temuto che lo spingessi sotto.

Santi Visalli, Santa Barbara. Foto: Newell Clark
Oggi la foto digitale e programmi come instagram hanno reso la foto più popolare, democratica, accessibile a tutti. I siti online spesso sacrificano la fotografia che ha un impatto diverso sulla carta stampata. Si è persa anche la magia della camera oscura. Secondo lei la fotografia ha ancora un ruolo importante?
La fotografia è un mezzo di comunicazione importante , anche più delle parole. È immediata, diretta, spesso inequivocabile. Non condanno la foto digitale ma di certo abbiamo perso la qualità. Ricordo che quando andai in Argentina per fotografare Peròn ci misi ore ed ore per sviluppare una foto in camera oscura nel bagno dell’aeroporto ed inviarla. Ora tutto è più semplice ma il risultato è qualitativamente diverso, inferiore. Le mie foto, quelle più importanti, ancora oggi sono in pellicola.
Un fotografo che sente vicino al suo modo di interpretare la fotografia?
Amo la fotografia di Lewis Hine che ha fotografato migliaia di immigrati che approdavano ad Ellis Island. Prediligo il bianco e nero perché è più eccitante e non permette il camouflage del colore. Il bianco e nero non perdona. Ti mostra la realtà vera.
Per vedere il lavoro di Santi Visalli: www.thefinestphotos.com, www.santivisalli.com