Marcello Ravveduto è un giovane ricercatore universitario, che ha unito la ricerca storiografica a una vasta produzione divulgativa sui fenomeni criminali e un’attività di giornalista e blogger non meno interessante delle altre sue aree di ricerca. Esperto di mafia e criminalità organizzata internazionale, si è occupato della rappresentazione di questi fenomeni, nella cinematografia e nella musica popolare. Ha pubblicato Libero Grassi. Storia di un siciliano normale (Ediesse, 1997), Le strade della Violenza (l’Ancora del Mediterraneo, 2006, Premio Napoli), Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici (Liguori, 2007). È autore del saggio Tra Napoli e Buenos Aires: una rotta musicale dell’emigrazione italiana (Patrimonio històrico cultural, Buenos Aires, 2009). Originario di Salerno, Marcello Ravveduto è anche giornalist e blogger.
La VOCE di New York lo ha intervistato.
Lei di formazione è uno storico. Si è occupato a lungo della criminalità organizzata (mafie per l'Italia). Un potere nel potere le cui storie spesso finiscono per sfociare nella fiction. Come si fa a tenere separati i due livelli. Quello storiografico da quello narrativo? Oppure è la stessa complessità del tema (l'accesso alle fonti) a rendere opaco il trattamento?
L’immaginario collettivo ha avuto sempre un ruolo determinante nella percezione storico-sociale dei fenomeni mafiosi. Per questo tramite, si sono formati stereotipi che hanno concorso a tipizzare uno stile narrativo, un’idea di rappresentazione delle mafie come emblema del made in Italy. È impressionante il numero di spot pubblicitari americani (soprattutto di pizza e pasta) che viene reclamizzato come “mafioso” nel senso di italiano. Credo che questo sia il risultato della profonda penetrazione del modello fiction nel racconto, ormai globalizzato, delle mafie.
La storia ha cercato e cerca di riportare la divulgazione sul piano della serietà scientifica, esaminando gli aspetti legati alla modernizzazione criminale, ovvero il potere economico assunto dai clan dopo l’esplosione del mercato della droga nella seconda metà del Novecento. Eppure chi studia la storia delle mafie non può eludere i temi emergenti dell’immaginario collettivo, perché se sono diventati “visibili” vuol dire che sono elementi dell’identificazione mafiosa contemporanea. Pertanto, sempre più spesso, la storia, nella ricerca delle fonti, si nutre delle fiction fino al punto, in qualche caso, da confondere l’una con l’altra.
Il suo lavoro storiografico su Libero Grassi ha ottenuto un buon apprezzamento di critica. La storia di Libero Grassi è davvero servita a far accrescere la consapevolezza rispetto alla prepotenza della mafia ed alla sua capacità di annientare ogni dissenso sociale verso di essa?
La biografia di Libero Grassi, imprenditore siciliano assassinato nel 1991 per essersi opposto pubblicamente (con interventi diretti sui media nazionali) al racket di Cosa Nostra, ci racconta la storia di una nazione e di una società in cui l’antimafia è assimilabile alla difesa delle libertà costituzionali. Le donne e gli uomini che sono morti per contrastare il potere delle mafie hanno ribadito il valore dell’art. 3 della Costituzione: "E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". E cosa sono le mafie se non un ostacolo al pieno sviluppo delle libertà democratiche e quindi all’impedimento del pieno sviluppo della persona umana?
Inoltre vale la pena ricordare che la memoria di Libero Grassi, come la maggior parte delle oltre novecento vittime innocenti delle mafie, muta la scia di sangue delle regioni meridionali in un’occasione di riscatto nazionale per quella parte d’Italia che non ha contribuito direttamente al Risorgimento e alla Resistenza. Basterebbe segnare sulla carta geografica dello Stivale un puntino rosso, indicando la provenienza delle vittime, per comprendere come nel periodo repubblicano, rispetto al Risorgimento e alla Resistenza, sia avvenuta una inversione di tendenza. Se il luogo d’origine dei patrioti risorgimentali e resistenziali, come attestano i monumenti commemorativi, rimarca il maggior contributo offerto dal Settentrione alle lotte di liberazione, la moltitudine di stele, obelischi, cippi, colonne, targhe e lapidi diffuse in tutto il Meridione rovescia la geografia dell’eroismo nazionale. La Resistenza alle mafie è il fattore di integrazione civile che ha consentito al Mezzogiorno di offrire alla Patria il sacrificio dei suoi martiri in difesa della democrazia repubblicana.
Veniamo alla Campania, arrivata alla ribalta internazionale attraverso la fiction narrativa e cinematografica di Gomorra (dell'autore Roberto Saviano e del regista Matteo Garrone). Non crede che la rappresentazione del fenomeno camorristico sia stata amplificata? E' davvero così pervasivo o siamo in presenza di una critica ideologica al capitalismo che presenta sempre delle aree grigie quando si tratta di accumulazione della ricchezza?
Da un lato Gomorra ha avuto il pregio di raccontare una realtà che è rimasta negletta per oltre vent’anni e ha svelato il potere accumulato dalla camorra attraverso il narcotraffico e lo smaltimento dei rifiuti tossici; dall’altro è diventato, suo malgrado, una rappresentazione stereotipata della realtà che è entrata a far parte dei racconti a contenuto mitologico e folkloristico intorno alla criminalità organizzata della Campania.
Del resto il vero nervo scoperto nello studio delle mafie non sono tanto la sociologia, la storia o l’antropologia, quanto l’economia. Questa scienza è in difficoltà perché il suo agire si pone al di fuori del campo etico. A differenza della morale, che distingue il lecito dall’illecito e il proibito dal consentito, l’economia non opera distinzioni tra queste categorie contrapposte. Esiste una disparità evidente nell’analisi dei fenomeni criminali tra ciò che detta la legge, ciò che suggerisce la morale e ciò che realizza l’economia. Se in passato morale ed economia sembravano unite, ora, nella contemporaneità, si sono scisse: ciò che è immorale e illegale non è antieconomico, anzi può essere addirittura conveniente. C’è ancora molto da indagare, a partire dalla ricchezza prodotta dal narcotraffico il cui valore aggiunto si espande aumentando le possibilità di arricchimento di migliaia di operatori economici che, attraverso la ridistribuzione del reddito illegale e il riciclaggio di ingenti patrimoni di origine criminale, conquistano consenso sociale.
Salerno, città modello oppure città crocevia di grossi interessi malavitosi internazionali?
Salerno – avrebbe detto Tommaso Buscetta – è una città “babba”. I suoi clan non sono mai stati nel novero della “classe dirigente camorristica”. Hanno svolto e svolgono principalmente servizi legati all’indotto dello spaccio di stupefacenti. Tuttavia, il fatto di essere radicati in una città con un grande porto sul Mediterraneo, nel quale quotidianamente approdano migliaia di container, ha assegnato ad alcuni boss (Panella – D’Agostino) un ruolo nevralgico nella catena di distribuzione anche per la vicinanza dell’imbocco marittimo sia alle coste calabresi, sia a quelle laziali. Inoltre, sono numerosi i cargo che vanno e vengono dalla Spagna, dove transitano gli stock provenienti dal Sud America destinati al narcomercato europeo. In realtà, ciò che oggi rende Salerno interessante sono gli investimenti nel settore del commercio dove si nota, a vista d’occhio, una crescita costante del riciclaggio di denaro sporco. Forse anche per questo è preferibile che in città non si spari onde evitare un innalzamento dell’attenzione delle forze di polizia sia intorno al porto, sia nelle attività commerciali più evidentemente esposte.
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