Scrittrice e giornalista, Laura Galesi, siciliana di Niscemi, si dedica al giornalismo d’inchiesta e di denuncia sociale. Il suo ultimo libro, Mafia da legare (Sperling & Kupfer) scritto a quattro mani con Corrado De Rosa, per la prima volta affronta un tema finora trascurato dalla letteratura e dal giornalismo: la follia. Nel 2010, con il libro Voi li chiamate clandestini, Laura viaggia nelle campagne del Sud, da CastelVolturno a Cassibile, per denunciare le terribili condizioni di lavoro dei migranti, svelando i retroscena del capolarato e della filiera lunga nell’agroindustria del Sud. Al rapporto tra criminalità ed impresa, Laura dedica un libro Le mani della criminalità sulle imprese, e torna a parlare di mafia nel libro Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia.
Oggi Laura ha lasciato la sua terra, la Sicilia, e si è trasferita a Roma. Il suo lavoro la porta in lungo e in largo per l’Italia. E’ direttrice di Libera Radio- Radio Città del Capo di Bologna e ha collaborato con Il Sole 24 Ore, Left, Huffingtonpost.
Appartiene a quei siciliani che vanno e hanno nel cuore il desiderio di tornare. “Per chi non è nato in Sicilia — dice Laura — è difficile comprendere il senso di amore e odio verso la propria terra, una terra piena di contraddizioni, complessa e questa forse è la sua bellezza”.
Nel tuo libro parli dello stretto legame tra la mafia e la follia. Un connubio spesso ignorato o sottovalutato. Come è nato questo lavoro?
Questo lavoro è nato da un'idea mia e del mio coautore Corrado De Rosa, uno psichiatra forense. Abbiamo voluto raccontare una mafia che utilizza ad uso e consumo la medicina. Nel codice d'onore di Cosa nostra, infatti, sembra non esserci spazio per la follia. Nell'immaginario collettivo il mafioso si comporta in modo irreprensibile, il boss è tutto d'un pezzo, o almeno così si dipinge. Eppure, in molti casi è pronto a trasformarsi, per convenienza, in un matto da manuale: un comodo ed efficace escamotage per evitare il carcere e farsi aprire le porte del manicomio.
Mafia da legare è il primo libro che raccoglie e analizza le varie forme di follia, a volte vera, altre presunta che hanno colpito Cosa nostra. Da quella usata per screditare i nemici e traditori a quella simulata che salva dalla prigione, fino alla psicopatia reale e feroce dei criminali sanguinari. Però non c'è follia, se non c'è nessuno che ne prova l'esistenza, e da qui, abbiamo analizzato i casi di medici corrotti che, a libro paga della mafia, ne attestano finte malattie. Già Giovanni Falcone spiegava così i mafiosi. “Nel 99 per cento dei casi quando un uomo d'onore riceve l'ordine di uccidere, non ha altra scelta se non quella di obbedire. Se deve uccidere, uccide. Senza porsi troppe domande e senza farne. Senza lasciare trapelare incertezze e soprattutto senza averne”. Un mondo in cui chi appare è malvisto. Figuriamoci se in un sistema come questo un uomo d'onore può permettersi il lusso di sembrare inaffidabile e di incarnare i luoghi comuni sulla follia.
Parlando di mafia si rischia, a volte, di ripetersi, quale approccio avete privilegiato in questo libro?
Abbiamo scelto di raccontare la mafia sotto un'altra angolazione, quella della pazzia, dei colletti bianchi compiacenti, dei boss che si trasformano in buffoni pur di eludere il regime carcerario. Il libro, in maniera macabra, sembrerebbe anche divertente, perchè i mafiosi sono disposti a tutto. C'è quello che a un certo punto scopre di avere la fede, si veste da prete e comincia a benedire giudici e avvocati durante il processo, quell'altro che si cuce la bocca, un altro che finge di stare su una sedia a rotelle e poi viene scoperto a ballare la makarena. E tanti altri ancora. Siamo partiti dalla documentazione giudiziaria e abbiamo raccontato storie, storie di veri boss e finti pazzi.
Negli Stati Uniti domina ancora l'idea della mafia-fiction che da Il Padrino fino a I Soprano non accenna a diminuire.
Negli anni '80 e '90 Kenny Gallo è stato gangster e trafficante di droga nella West Coast americana, poi è diventato consulente dell'Fbi. Quando gli chiedono che cosa pensa dei Soprano, la fiction che ha per protagonista un boss ansioso che va dallo psicanalista, dice senza giri di parole che la descrizione di quel boss è “quasi ridicola. Anche solo l'idea che un mafioso possa andare dallo psicologo è falsa: se si sapesse una cosa del genere, nella realtà saresti già morto”.
Giornalista e scrittrice che ha lasciato la Sicilia. Pensi che il tuo trasferimento sia ormai un fenomeno generazionale (formarsi altrove e avere nuove esperienze) oppure una necessità inevitabile?
Lasciare la propria terra è sempre un dramma che ciascuno di noi si porta dietro. In molti casi, purtroppo, partire diventa una scelta inevitabile, perchè il Sud continua ancora a soffrire il dramma della disoccupazione. Una carenza che, per molti aspetti, è legata anche al radicamento di un fenomeno criminale che riesce, in molti casi a condizionare anche il mercato del lavoro. Con questo non voglio dire che la mafia sta solo al Sud, anzi, il Nord Italia è ormai il cuore pulsante di una mafia che si è fatta imprenditrice. Una mafia che non spara, ma fa soldi, controlla e deforma l'economia del nostro Paese, creando quella concorrenza sleale che non consente a molti imprenditori onesti di andare avanti.
In Sicilia, sono stati nove i giornalisti vittime della mafia. Ancora oggi è difficile fare giornalismo nell'Isola se si vuole essere fuori dal coro.
In realtà, anche questo ormai non è un fenomeno che riguarda solo i giornalisti siciliani. Solo nel 2013 sono 189 i giornalisti minacciati in Italia, molti di questi lavorano nel Mezzogiorno, tanti altri però stanno al Nord e anche loro scrivono per 5 euro a pezzo e per il desiderio di raccontare, spesso sono vittime sole di minacce e abusi. Questo è un grande limite del nostro Paese che, se da una parte a livello costituzionale garantisce la libertà e quella di informazione, dall'altra non garantisce, alla stragrande maggioranza di giornalisti precari, alcuna tutela. Con la doppia conseguenza di non garantire il diritto-dovere al giornalista di scrivere la realtà, dall'altro rischia di inquinare la libertà di informazione.
Quali sono i giornalisti siciliani, italiani, che secondo te oggi, seguono un'idea di giornalismo-verità non condizionata dai poteri?
Ci sono tanti colleghi che raccontano la verità e lo fanno per pochi euro, nella solitudine più completa e senza tutele. Una per tutte la storia di Giovanni Tizian giornalista de L'Espresso, trentenne, nato in Calabria e cresciuto in Emilia Romagna. Per le sue inchieste contro la 'ndrangheta al Nord vive da due anni sotto scorta, gli ndranghetisti in Emilia minacciano di sparargli in bocca. Questa è una storia a tutto Nord, che racconta di un'Emilia ormai lontana dagli echi della storia. Potrei fare altre mille nomi, ma l'importante è non lasciarli soli. Ora Tizian si è costituito parte civile nel processo ai suoi aguzzini appena iniziato, e insieme a lui c'è l'Ordine Nazionale dei Giornalisti, Sos Impresa, innumerevoli Enti Locali. Le mafie temono più di tutto il frastuono e la cultura. Per questo, la stampa vive una fase così drammatica.
Giornalista, addetto stampa, giornalista radiofonica, ora scrittrice. Quale forma di comunicazione ti piace di più esplorare e quali sono i tuoi progetti?
Tutte queste esperienze hanno sempre un comun denominatore, quello di informare, raccontare e fare conoscere. Il giornalista oggi deve essere in grado di raccontare il presente e farlo in tutti i modi che la nostra professione ci consente.
Noi siciliani abbiamo sempre questo rapporto controverso con la nostra terra. Sentiamo il bisogno di partire ma anche l'esigenza di tornare. Al ritorno spesso si accompagna un disagio. Come vedi la tua partenza e il tuo ritorno da "Itaca"?
Leonardo Sciascia in un noto aforisma diceva: "Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già, oltre Roma". Questo per dire che ci sono quei siciliani che partono per sfuggire a una realtà pesante e invivibile, ma una volta arrivati altrove si accorgono che le stesse contraddizioni esistono anche altrove, e allora nascono gli altri tipi di siciliani, quelli che vanno e hanno nel cuore il desiderio di tornare. Io sono sicuramente della seconda specie, certamente voglio tornare e fare il mio lavoro. Per chi non è nato in Sicilia è difficile comprendere il senso di amore e odio verso la propria terra, una terra piena di contraddizioni, complessa e questa forse è la sua bellezza.