Un’Italia surreale e una Palermo che non esiste fanno da scenario alla storia amara dell’ultimo film di Daniele Ciprì. È stato il figlio, in proiezione al Lincoln Center per la rassegna Open Roads, oggi alle 4.30, è un film pieno di stupore. A dispetto della drammaticità della vicenda, nelle immagini di Ciprì c’è un che di fiabesco, fin dalle prime scene che danno l’attacco alla narrazione con un personaggio-cantastorie che, in attesa all’ufficio postale, ammazza il tempo con i suoi racconti.
La storia che racconta è quella di una famiglia che perde una figlia, colpita per errore durante un regolamento di conti di mafia. Un risarcimento ai familiari delle vittime dei delitti di mafia trasformerà la tragedia in occasione, mentre il padre, Nicola, interpretato da Toni Servillo, realizzerà il sogno di comprarsi una Mercedes che finirà per trattare meglio della defunta figlia.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Roberto Alajmo, rifiuta il realismo e si spinge sui territori del paradossale e del grottesco, senza preoccuparsi di rispettare i fatti. Ne abbiamo parlato con Daniele Ciprì per capirne l’estetica anti-realistica.
Palermo, la tua città, è in qualche modo la protagonista del tuo film, ma in realtà non è presente perché quella che vediamo non è Palermo. Perché hai fatto questa scelta?
Nel mio lavoro cerco sempre di mettermi in crisi. Voglio trovare un mio mondo e un mio modo di rappresentarlo. In questo film io racconto Palermo, ma quella che mostro non è la vera Palermo. Il film è girato in Puglia. Palermo non l’ho mai filmata e mai lo farò. Ma la evoco e la invento. Ho costruito un mondo, ho creato dei piccoli spazi surreali dove si sente l’anima di Palermo anche se non è lì. Non è una provocazione ma un’operazione visiva. Palermo non volevo vederla, ma volevo sentirla. Come un sogno o come un giocattolo. Ho voluto costruire un palcoscenico, un circo. Come faceva Fellini che in questo era un genio. Per questo per esempio mi piace il cinema di Garrone o di Sorrentino perché, senza raccontare l’attualità, riescono a fare film di grande forza. Anche il mio film voleva essere così. Non c’è realismo, anche perché se fosse realistico sarebbe un film tristissimo.
Dato questo approccio anti-realistico, che rapporto hai avuto con il libro da cui il film è tratto? E qual è stata la reazione di Alajmo al tuo film?
Questa è una storia vera, ma anche Alajmo ha cambiato parecchie cose rispetto alla vicenda reale. Anche la sua era un’elaborazione. Il mio film è la terza fase di rielaborazione della storia attraverso la narrazione. A me interessava raccontare questa famiglia, ma senza realismo. Dovevo trovare la formula giusta. Non volevo vedere Palermo, non volevo dei palermitani, ma volevo immagini e corpi che evocassero Palermo. Non volevo un siciliano come protagonista. Per questo sono arrivato a Servillo che con il suo accento napoletano crea un effetto surreale. Nella prima scena ho utilizzato addirittura un attore cileno, Alfredo Castro. Sapendo di stare facendo un’operazione rischiosa ho parlato con l’autore e gli ho detto che nel mio film avrei cambiato molte cose rispetto al libro e che, in caso, gli avrei fatto leggere la sceneggiatura. La sua risposta è stata semplicemente: fammi avere due biglietti per la prima. Dopo aver visto il film mi ha detto: ho visto delle cose che non avrei mai immaginato e, porca miseria, le avrei scritte. Per esempio l’uomo della posta o la scena con le cartoline o quella del battesimo in macchina sono tutte cose che ho aggiunto io. E invece ho voluto tenere il grottesco nel finale come è anche nel libro e che nel film è l’unica scena in cui c’è realismo.
Primo film senza Maresco, il partner di una vita..
Il nostro percorso insieme si era in realtà concluso con Totò che visse due volte. Ma poi abbiamo proseguito ancora per un po’ perché avevamo questa idea di fare una commedia alla Billy Wilder che in parte è quello che abbiamo cercato di fare con Cagliostro. Ma, dopo 24 anni di coppia, le nostre strade si erano divise. Quando mi è arrivata la proposta di questo romanzo ci ho pensato tanto e ho cercato una formula che rispettasse il mio e il nostro passato. Siamo stati soci e amici fraterni, ho una grande nostalgia per quegli anni e abbiamo fatto un’esperienza irripetibile, ma ora mi sembra di dover sperimentare un poco con me stesso. In questo film da solo credo di aver ricordato, rispettato ed evocato quello che ho fatto con Franco, ma ho anche cercato di fare qualcosa di diverso: per esempio il film non è in bianco e nero.
Che effetto fa essere a New York con il tuo film?
É la prima volta in assoluto che vengo a New York — io non viaggio molto — e la prima impressione è stata bellissima. Mentre arrivavo in taxi mi sentivo in un film, mi venivano in mente tutte le scene di film ambientati in questa città. Per un regista c’è tutto un immaginario dietro… l’America resta un sogno. Però credo che anche da parte loro ci sia curiosità nei confronti del nostro cinema. È vero che in Italia negli ultimi anni siamo molto piccoli nel cinema, non abbiamo più i grandi nomi del passato e con la crisi abbiamo grossi problemi di budget. Ma allo stesso tempo noi raccontiamo ancora un mondo che è scomparso dal cinema americano. Raccontiamo l’uomo, la famiglia, la morte… Certo, loro hanno un’industria che noi non abbiamo. Per questo poi capita che quando noi facciamo cose qui, con i loro budget, finiamo per fare cose molto brutte.
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