Cinque categorie (film, corti, documentari, animazioni e film sperimentali), 20 film e 86 corti da 22 paesi. Sono questi i numeri del Brooklyn Film Festival, impegnato, sin dalla sua nascita nel 1998, a incoraggiare i giovani talenti e promuovere Brooklyn come centro di cinematografia indipendente. Marco Ursino, torinese arrivato a New York nel 1988, ci racconta la genesi e la filosofia del Festival, di come il New York Times lo ha scoperto e, ovviamente, di Williamsburg, da zona malfamata a fucina delle mode di tutto il mondo.
Parlami di te, come sei arrivato a Brooklyn? Com’è nato il Festival?
Mi considero uno dei pionieri di Williamsburg, sono arrivato nel '93, quando era una zonaccia. Avevo appena finito un film con degli amici, al quale avevo lavorato cinque anni (Clouds of Magellan). All’inizio ho cercato di proporlo in qualche Festival, poi ci è venuta l’idea di fare un Festival che fosse nostro. Eravamo quattro gatti a Williamsburg in quel periodo, ho chiamato un po’ di gente a casa mia, abbiamo fatto una riunione in trenta persone, e ho detto loro che volevo fare un Festival. La reazione iniziale fu negativa: tutti a dirmi che era un’idea stupida e che non ne sarebbe valsa la pena. E invece l’abbiamo iniziato, come un esperimento. Oggi siamo al sedicesimo anno, quindi direi che è un esperimento ben riuscito. Senza saperlo, siamo riusciti a riempire un grosso gap: a quei tempi era veramente difficile trovare dei posti dove andare a vedere film stranieri, c’era qualcosa all’Angelika e al King’s Video. Noi abbiamo inventato un festival internazionale. Nei primi sei anni, il Festival è cresciuto esponenzialmente ogni anno più del doppio. Dopo un paio di anni, nel 2000, ci ha scoperto il New York Times: uscì un articolo di mezza pagina, in concomitanza con una Williamsburg che stava per esplodere. Era il 5 marzo del 2000, noi avevamo appena fatto un party a casa mia di ventiquattr’ore. Erano le sei di mattina, qualcuno è andato a comprare il giornale, lo abbiamo letto tutti insieme alla fine del party, il telefono ha iniziato a squillare e ha smesso tre mesi dopo. Poi Time Warner Cable è diventato nostro Sponsor, tutti volevano essere associati con il nostro Festival. Per tanti anni abbiamo lavorato per la gloria; quando non hai soldi, la migliore scommessa che puoi fare è il lavoro. Io ho avuto la fortuna di trovare delle persone in gamba, che avevano voglia di coinvolgersi senza soldi, e siamo riusciti a creare un mostro.
Il BFF è il primo festival internazionale di cinema di New York. Da allora tanto è cambiato. Come si è evoluta la scena cinematografica indipendente di New York dal 1998 ad oggi?
È cambiato tutto. Tanto per iniziare è cambiata la tecnologia. Allora il filmmaker indipendente era quello che riusciva a fare un film in 16 mm, e in un anno erano due o tre i lungometraggi che riuscivano ad entrare nel mercato. Da quella scena sono usciti registi come Tarantino, anche io provengo da quella scena, in quel periodo stavo girando Clouds of Magellan. Adesso con qualche migliaio di dollari ti compri una macchina ad alta definizione, se sai quello che fai e hai un bravo direttore della fotografia, nessuno può dirti che non sei un filmmaker.
Le cose, poi, si sono evolute anche per nel formato: fino a dieci anni fa il documentario era quello sulla PBS, paragonabile al documentario sulla BBC o sulla RAI. Oggi la percezione è cambiata: il documentario è un formato nelle mani dei giovani filmmaker, la gente si siede al cinema e paga tredici dollari per vedere un documentario. I cortometraggi, poi, si facevano solo per poi arrivare a girare un lungometraggio. Adesso, con tutti i canali televisivi e il web, c’è una grossa fetta di mercato anche per i corti.
Perché Indie Screen e Windmill Studios sono le location giuste per questa edizione del BFF?
Io sono uno dei soci dell’Indie Screen, l’abbiamo preso nel 2009. Dagli anni settanta ad oggi, la tendenza dei cinema indipendenti era di chiudere per lasciare il posto ai multisala. Pensa che a Williamsburg negli anni settanta, nel raggio di un miglio, c’erano una ventina di cinema, adesso non ce n’è neanche uno. Ignorando questo, un giorno mi son detto che forse era il momento buono per riportare il cinema indipendente, in un modo finanziariamente valido. Chiaramente, ci sono delle statistiche ben precise. Per esempio qui a New York, se non hai un multisala con almeno diciassette sale, è difficile chiudere in positivo, perché le case di distribuzione prendono il 90% dei tuoi incassi. Ma se lo fai associato ad altri business come il bar, il lounge, il ristorante insieme al cinema, uno può alimentare l’altro. E, senza saperlo, anche lì ho iniziato un trend, adesso una delle cose più trendy di New York è il micro cinema. Pensa che noi siamo stati i primi, nello stato di New York, a fare una cosa del genere, e nel raggio di mezzo chilometro ne sono nati altri cinque. Siamo stati anche i primi, tra l’altro, nello Stato di New York, ad avvantaggiarci della nuova legge cambiata a settembre 2011, che permette al cliente di entrare in sala con una bevanda alcolica, cosa che era proibita dal 1920. Eravamo di nuovo al posto giusto nel momento giusto.
Il Festival è all’Indie Screen perché è il posto caldo del momento, è quello che la gente vuole adesso, cioè il cinema con il bar, l’impianto per il Dj, spazio per poter fare networking, è una location che offre tante cose.
Il tema di questa edizione è Magnetic, inteso come lo studio di quelle forze invisibili che uniscono o spingono lontano le persone. Nel 2011, il filo conduttore era Relationship, le relazioni tra le persone. Un segno della volontà di riscoprire emozioni e relazioni più intime, nelle difficoltà dei tempi di crisi?
Certamente sì. Di solito, in autunno abbiamo già le idee chiare sul tema dell’anno, ma è capitato che molte volte in corsa ci siamo resi conto che il tema che usciva fuori dai film in realtà era un altro. Ci tengo a dire che il tema è molto filosofico, non deve essere considerato in senso stretto, non vogliamo scoraggiare le persone a mandarci il film perché non è “magnetico”!
La promozione dei talenti locali è una delle mission principali del Festival. Tra i film di registi locali nell’edizione di quest’anno ci sono HareBrained di Billy Kent, Cut to Black di Dan Eberle e Sleeping With the Fishes di Nicole Gomez Fisher. Che Brooklyn emerge da questi film?
Una Brooklyn molto eterogenea, ovviamente. La sola Brooklyn ha due milioni e mezzo di abitanti, centonovanta gruppi etnici, è un casino mostruoso che funziona, dove l’individualità è spinta all’estremo, tutti possono fare il cavolo che gli pare. Io vengo da una città come Torino, dove ci sono delle regole: quest’anno va quella scarpa lì, devi averla anche tu, altrimenti sei tagliato fuori. Qui è tutto l’opposto, se hai una scarpa che nessuno ha mai visto, è figa. Brooklyn sta vivendo una reinassance incredibile, tutte le mode vengono create qui. Per l’indie rock, per esempio, Brooklyn è la capitale del mondo. Non esiste una moda di Brooklyn, ma un gruppo di ragazzi che fanno quello che gli viene in testa, in poche parole. Tutti questi film, infatti, hanno poco in comune. L’unica cosa che li aggancia è l’aderenza al tema di quest’anno, che è “magnetico”, come alcune cose si respingono e altre si attraggono. Tra i film che hai citato ci sono il film di apertura e quello di chiusura, sono due film opposti, uno è un film violento, serio, mentre l’altro è una commedia divertente. Abbiamo fatto questa scelta per rinforzare il tema di quest’anno.
Uno dei documentari proiettati durante il festival, Caffè Capri, di Casimir Nozkowski, parla di un coffee shop italiano a Williamsburg. Esiste una comunità italiana a Williamsburg?
Sono venticinque anni che sto a Williamsburg, ed ero dentro la comunità italiana, mentre lavoravo per la ICN Radio. Oggi il concetto di comunità è molto diverso, chi viene in America dall’Italia ha già le idee molto precise, e conosce già l’inglese. I ragazzi che vengono a Williamsburg arrivano qui per fare cinema, arte e musica, in modo diverso. Non potrebbero far parte di questa comunità se non fosse così. Williamsburg gli dà la possibilità di essere diversi.
Come funziona la selezione dei film?
C’è un piccolo esercito, cinque programmatori per ogni categoria e c’è un esercito di screeners. Contemporaneamente il direttore della programmazione si confronta con me, è un processo del tutto trasparente; forse è anche per quello che siamo riusciti a crescere e a conquistarci il nostro spazio, perché la gente non è stupida, specialmente i filmmaker. Tra l’altro, accompagniamo i registi nelle loro carriere, ed è pazzesco quanti alumni tornano indietro: quest’anno, sia il regista del film di apertura che quello di chiusura erano già stati al Festival. Hanno deciso di tenere la World Première qui, quindi è evidente che si sono trovati bene la prima volta.
La 16sima edizione del Festival è finita. Un bilancio?
Direi molto bene. Io guardo anche i numeri: la tendence, quanta stampa si è occupata di noi, quanti biglietti abbiamo venduto, qual è il response della gente, quanti film abbiamo fatto vedere, quanti problemi tecnici abbiamo avuto, e devo dire che è stato un festival di successo – anche se non è ancora finito, tocchiamo ferro! – c’è stata una grande affluenza e tanti spettacoli sold out, non solo quelli di apertura.
Progetti per il futuro?
Il festival mi occupa moltissimo. Come tutte le attività di questo tipo, sono difficili e costose, se non c’è un giro d’affari notevole, è facile perdere denaro e fallire. Bisogna concentrarsi sempre al massimo, e ci sono sempre moltissime cose da fare. Il Festival cresce tantissimo, ha raggiunto un certo plateau, ma ha un potenziale ancora alto, il mio obiettivo è quello di aggiungere un mattone tutti gli anni, anche se sono certo che ho creato un qualcosa che cammina da solo.