Ormai un piccolo classico del teatro italiano, Marathon (La Maratona di New York) del milanese Edoardo Erba, approda al Dicapo Opera Theatre per la sua prima mise en scène a New York dopo essere stato tradotto in diciassette lingue e pubblicato in otto. Lo spettacolo ha debuttato nel 1993 al Teatro Due di Parma, con una performance memorabile di Luca Zingaretti e Bruno Armando, ed è stato adattato per la versione americana dal drammaturgo americano Israel Horovitz e diretto da Laura Caparrotti, direttrice del Festival.
Due amici, Steve e Mario – interpretati rispettivamente da Vincent Piazza (conosciuto al grande pubblico per la sua interpretazione di Lucky Luciano nella serie Boardwalk Empire) e Ted Lewis – si allenano insieme, sognando di partecipare alla Maratona di New York. In questo tour de force fisico e psicologico, si parla di donne, amicizia, ricordi e infanzia; chiacchiere quotidiane per passare il tempo, ma che rivelano un’acuta e sottile analisi dei linguaggi e dei personaggi. Steve e Mario sono tracciati con tocchi leggeri e affidati a brevi battute: Steve, sicuro di sé e in gran forma, incarna lo stereotipo dello sportivo alla ricerca estenuante della fatica come catarsi esistenziale mentre Mario, goffo e insicuro, sembra sempre sul punto di abbandonare l’impresa, simulando persino un incidente per fermarsi e riprendere fiato. La cadenza del dialogo è ritmata dal passo sostenuto dei due amici che corrono, camminano e si allenano, affrontando e frantumando con i loro discorsi i massimi sistemi mentre lo spettacolo sfuma progressivamente nell’astrazione, sostenuto dall’abilità degli interpreti in una scena nuda. Poco importa se forse è stato tutto un sogno, un incubo, o una proiezione di Mario, che oltrepassa il confine della vita, e scopre alla fine di essere in coma. Un racconto commovente di aspirazioni e frustrazioni, tra la finzione e la non-finzione, in un labile confine tra la dimensione onirica e reale, tra la vita e la morte.
Ed è altrettanto commovente lo spettacolo Jennu Brigannu. Once Upon a Time there were brigands della compagnia calabrese Il Teatro della Ginestra. La performance, recitata qui in dialetto calabrese e in inglese e scritta da Vincenza Costantino, drammaturga e docente all’Università della Calabria, è portata sul palco da Manolo Muoio, Dante De Rose ed Ernesto Orrico, con la regia di quest’ultimo. Tre uomini, guappi del duemila, parlano del brigantaggio nel Sud Italia. E così vecchie vicende sui briganti, dalle più conosciute e leggendarie a quelle meno note, s’intrecciano con la storia dell’Unità d’Italia e con racconti di persone normali e di emigrazioni contemporanee, disegnando una Calabria sempre ferita e alla ricerca di un’identità e che vede molti dei suoi figli andare via, oggi come allora. Varcando i confini cronologici, i racconti e le storie diventano trame di un tessuto frammentario e poetico, amaro e ironico al tempo stesso, che sconfina nel surreale e nel sovrapporsi di stili e lingue diverse. Uno spettacolo emozionante, con una scenografia scarna affidata a tre sedie e due fiaschi di vino e qualche accenno nei costumi degli attori.
Il lavoro della Costantino, lontano da qualsiasi eco retorico o sentimentale, risulta impegnato ma leggero, mescolando sapientemente grandi e piccole narrazioni, storie corali e personali, fonti storiche e leggende, senza dare giudizi di merito, ma con una (dis)incantata consapevolezza.
Jennu Brigannu. Once Upon a Time there were brigands sarà di nuovo in scena il 18 giugno al Calandra Italian American Institute.
Il festival In Scena! prosegue fino al 20 giugno in diverse location nei cinque borough di New York.