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January 22, 2012
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SPETTACOLO/ Un sardo a Hollywood

Laura CaparrottibyLaura Caparrotti
Nella foto Emanuele Secci con George Clooney

Nella foto Emanuele Secci con George Clooney

Time: 5 mins read

A sentirlo parlare in inglese, non si direbbe che è italiano; certo è che appena usa la lingua natìa, si denota una certa origine sarda. Emanuele Secci, attore, regista, produttore, imprenditore, pianista, è fiero delle sua terra che porta sempre con sé nel cuore. Da quando, nel lontano 1989, ha lasciato l’Italia, allora pianista di successo, per studiare a New York, poi per un breve periodo a Vienna, e poi di nuovo a New York dove è stato fino a pochi anni fa, quando il sole della California lo ha attratto per iniziare nuove avventure. Una delle quali è stata una nota pubblicità italiana girata accanto ad un vero e proprio divo, George Clooney.

Emanuele, dopo aver lavorato con Ron Howard (“Angels and Demons”) e con altri grandi artisti, come è stato girare con il divo dei divi, George Clooney?

«È stato bello. Mi ha fatto piacere ritrovare in un ambiente hollywoodiano valori che mi appartengono. La semplicità che trovi nel conversare con una persona di cultura che è allo stesso tempo umile, anche se si chiama Clooney, ti esalta. Lui è un professionista e ti mette al suo livello. Io ho lavorato con altre persone di una certa fama che si comportavano come se solo loro contassero. Con Clooney non è affatto così; addirittura quelle pochissime volte che ha commesso degli errori, ha chiesto scusa a tutti, atteggiamento che dovrebbe essere normale, ma che ripeto, a quei livelli, è molto raro».

In questi giorni esce al Sundance Film Festival “Nobody Walks” con John Krasinski e Jane Levy, un film indipendente in cui tu hai un ruolo importante. Che tipo di personaggio interpreti?

«Il personaggio si chiama Marcello, è l’insegnante privato di italiano della figlia della famiglia attorno a cui ruota l’azione del film. È un personaggio che mi ha molto affascinato perché nel giro di poche scene tocca strati di diversa profondità». 

Dunque pensano a te per ruoli italiani?

«No, è chiaro che se c’è una parte italiana e sono italiano, dell’Italia, è un vantaggio. Però alle volte ho fatto audizioni per un italiano e magari hanno preso un non italiano. Faccio anche molti ruoli non italiani, anche se difficilmente mi scelgono per interpretare un americano al 100%. Comunque in questo film, il ruolo era originariamente pensato per uno spagnolo, poi hanno visto me e lo hanno trasformato in un italiano!»

A tuo parere, vista la tua esperienza, i registi cercano in te lo stereotipo dell’italiano secondo Hollywood?

«Può capitare. Io cerco sempre di svicolarmi, soprattutto quando non ho una parte molto grossa. Lo stereotipo capita spesso e tu, da bravo attore, cerchi di usare il personaggio pur se stereotipato, cercando un equilibrio e una realtà che noi italiani conosciamo».

Tu parli un inglese quasi perfetto. Quando fai l’italiano che parla inglese, che inglese vogliono?

«È paradossale: sei italiano, fai l’accento italiano, ma non gli basta. Non ho ancora capito cosa sentono loro che noi non sentiamo. Se vengo “provinato” per una parte americana, non me la danno perché dicono che il mio accento inglese ha un qualcosa di straniero. Poi però, come è successo con questo film a Sundance, io dico una cosa in inglese, che dovrebbe essere con l’accento italiano, e mi dicono che ho un accento americano perfetto e che devo sembrare più italiano. Non sono mai contenti, insomma!» 

Sardo, italiano, americano: cosa c’è nel futuro prossimo di Emanuele?

«Sto lavorando come regista ad una puntata zero per la televisione italiana di una sit-com girata negli Stati Uniti che spero possa avvicinare il modo di concepire la recitazione in questi due paesi».

A proposito di unione dei due mondi, tu fai anche parte della compagnia KITKairos Italy Theater, che fa teatro in italiano e inglese. Cosa ci dici di questo tipo di esperienza?

«Nonostante appena diplomato abbia fatto subito cinema e televisione, ho avuto in seguito un periodo in cui ho lavorato in spettacoli come italiano e russo, sia Off che Off-Off Broadway. Subito dopo ho incontrato la KIT. Con loro ho fatto vari testi, da Flaiano a De Filippo, con persino una puntata su Kraus e posso dire che ho trovato il loro modo di lavorare geniale perchè siccome mi sento italiano, ma sono grato all’America di quello che mi ha dato, ho trovato in questo modo di proporre i testi in doppia lingua la summa del mio stare in America. Mi ha dato insomma la possibilità di esprimermi a 360 gradi. Per scaramanzia non mi sbilancio troppo, ma diciamo che spero di tornare sui palcoscenici di Los Angeles proprio con una produzione della KIT».

Infine, preferisci N.Y., L.A. o Cagliari?

(Lunga pausa) «Non so se sia più insostituibile la Sardegna o New York, ma Los Angeles è la città che mi sta permettendo di essere ogni tanto sia in Sardegna che a New York».

 

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Laura Caparrotti

Laura Caparrotti

Ho cominciato a fare teatro nell'ingresso di casa mia, a Roma. Poi sono venuti i maestri, la laurea in discipline dello spettacolo e le tournée. Nel 1996, New York, nello storico The Kitchen. Vent'anni dopo sono ancora qui. Ho fondato una compagnia, la Kairos Italy Theater, specializzata in cultura italiana, e In Scena! Italian Theater Festival NY, un festival che porta il nostro teatro in tutti i distretti della città. Il teatro è la mia grande passione, insieme al ballo e alla (magggica) Roma. A New York ho anche iniziato a scrivere (proprio con Stefano Vaccara nel 1997), a insegnare teatro, a fare voice over e la dialect coach. Il tutto condito da un inconfondibile – ma affascinantissimo, mi dicono – accento italiano.

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