L’avevo sentita proprio pochi giorni fa. Era un po’ affaticata per la brutta caduta fatta i mesi scorsi dalla quale non si era ancora ripresa, ma era combattiva come al solito. Avevamo parlato di Afghanistan ed era arrabbiata per il tragico ritorno dei talebani al potere. Anna amava l’Afghanistan che conosceva profondamente e che aveva attraversato insieme a grandi fotografi. Le pareti di casa sua sono piene di immagini bellissime dei luoghi in cui era stata per testimoniare i tragici destini delle donne afghane e dei più deboli.
Eravamo rimaste a chiacchierare a lungo, come al solito, parlando di quello che accadeva nel mondo, ma anche delle nostre vite e dei progetti che avevamo. Anna stava scrivendo un nuovo libro sul fondatore della Croce Rossa Henry Dunant. Ci stava lavorando da parecchi mesi e si era appassionata alla storia di quest’uomo che si batté perché i feriti dei campi di battaglia senza distinzione di nazionalità venissero curati da un corpo di volontari neutrali.
Ci eravamo date appuntamento a Milano per la metà di settembre per prenderci un caffè come al solito. La notizia della sua morte mi ha lasciata incredula. Anna amava dire di avere avuto due vite. Una, quando era la signora Falck, fatta di salotti e jet set della quale conservava ricordi divertenti che ti raccontava quando meno te l’aspettavi; l’altra fatta di viaggi nelle stive degli aerei delle Nazioni Unite carichi di aiuti umanitari da portare nei tanti campi profughi del mondo.
Io l’ho conosciuta proprio su uno di questi voli, nella sua seconda vita. Eravamo sedute vicine, sul fondo dell’aereo appoggiate ad alcune casse, dirette in Pakistan per incontrare un gruppo di bambini e bambine afghani da portare in Italia al Pavarotti and friends dedicato proprio all’Afghanistan. Era il 2001, i talebani erano al potere e oltre 3 milioni di afghani vivevano nei campi profughi lungo il confine in territorio pakistano. Pochi mesi dopo Bin Laden avrebbe dato l’ordine di abbattere le Torri Gemelle e sarebbe iniziata la guerra al terrorismo.
Anna era stata nominata da Kofi Annan ambasciatrice di pace e viveva con determinazione questo nuovo incarico, seguendo le orme della sua cara amica Audrey Hepburn diventata ambasciatrice per l’Unicef. Anna conosceva tutti, se ti parlava di Mike era Michael Douglas, se ti diceva di Angelina era Angelina Jolie, se ti raccontava di Jackie era Jacqueline Onassis se accennava a Christiane era Christiana Amanpour la grande inviata di Cnn ospite a casa sua in Toscana. Se lei chiamava tutti rispondevano alla sua chiamata e le porte si aprivano.
Con distacco ti sciorinava aneddoti ed episodi divertenti che riguardavano personaggi famosi che erano stati i suoi compagni di viaggio nella prima vita. Non c’era mai ostentazione, semplicemente quelli erano i suoi ricordi. Ne è un esempio il suo ultimo libro La coda della sirena nel quale racconta come sia riuscita a convincere Hollywood a realizzare il film da sette Oscar La mia Africa sulla storia d’amore di Karen Blixen con il fotografo Denys Finch-Hatton, ma anche di come sia stata esclusa dai ricchi guadagni e le sia stato concesso il solo credito di produttrice associata.
Anna ha avuto una vita intensa, due matrimoni, dopo quello con Falck c’è stato quello con Urbano Cairo, ha vissuto tante gioie ma anche grandi drammi, come la morte improvvisa dell’amato figlio Giovanni nel 1987. Un vuoto che ha riempito intensificando il suo impegno verso gli altri e dedicandosi alla difesa dei diritti degli ultimi.
L’ho sempre vista in questi anni lavorare con passione, prima alla pubblicazione di un volume di denuncia dei crimini di guerra, poi alla lotta contro la tubercolosi in veste di Ambasciatrice dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quindi come Ambasciatrice di Ecre (European Council on Refugees and Exiles. Un lavoro silenzioso e prezioso fatto con generosità. Non tutti conoscevano il suo nome, ma chi ha lavorato nei teatri di guerra sa chi è stata Anna Cataldi. Mi mancheranno le sue battute, le nostre chiacchierate, il suo umorismo al momento giusto.