Si apre una nuova era nelle relazioni Iran-USA dopo la vittoria dell’ultraconservatore Ebrahim Raisi alle elezioni presidenziali iraniane di venerdì scorso. Giudice, in particolare ex presidente della Corte Suprema e membro di quella “Commissione della morte” che giustiziò oltre 5.000 oppositori del regime, Raisi ha fatto sapere che non ha alcuna intenzione di incontrare il suo omologo americano Joe Biden.
E’ il primo presidente iraniano sottoposto a sanzioni statunitensi per violazione dei diritti umani, e Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca, ha confermato che continuerà ad essere ritenuto responsabile.

A preoccupare le cancellerie occidentali, i paesi arabi del Golfo e ovviamente Israele è un possibile sviluppo del programma nucleare iraniano, tenuto a bada per un certo periodo dal trattato JCPoA. Siglato nel 2015 da Barack Obama, insieme ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU e all’Unione europea, l’accordo prevedeva limiti alla attività nucleare di Teheran in cambio della revoca delle sanzioni economiche. Il deal si stipulò grazie al consenso finale e necessario dell’ayatollah Ali Khamenei, la figura religiosa e Guida Suprema della nazione.
Il JCPoA non aveva mai soddisfatto Israele e Donald Trump appoggiò nel 2018 questa diffidenza uscendo unilateralmente dall’accordo. L’Onu e l’Ue continuarono a tenerlo in vita, ma senza la presenza americana il trattato diventava incompleto. Gli USA rilanciarono le sanzioni economiche contro l’Iran e nel gennaio 2020, dopo l’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani ordinata da Trump, Teheran riprese l’arricchimento dell’uranio.

Con l’arrivo di Biden, Washington ha cambiato nuovamente politica. Il presidente USA intende rientrare nell’accordo, ma ampliandone le limitazioni. L’ottimismo americano è svanito però a poche ore dalle elezioni quando il neopresidente Raisi ha chiarito che la questione “non è negoziabile” e l’unico deal ad avere valore è quello del 2015. Parole che per la Casa Bianca hanno poco peso, in quanto le prospettive per il raggiungimento dell’accordo dipendono dal sostengono del leader supremo Khamenei, colui che prende le decisioni finali indipendentemente dal presidente e nel 2015 aveva firmato il JCPoA.
I sei paesi impegnati (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania) hanno tenuto domenica a Vienna un sesto round di colloqui, ma per via delle elezioni iraniane, le delegazioni hanno accettato di prendersi una pausa. In questi giorni si continuerà comunque a negoziare perché ottenere benefici economici è una questione esistenziale per il paese. Infatti, dietro la dura retorica di Raisi, il pragmatismo di fondo del regime dice che l’Iran è disponibile ad accettare dei compromessi laddove questi sono necessari ad avanzare un obiettivo superiore.
Mahmoud Vaezi, capo di gabinetto del presidente iraniano in carica Hassan Rohani, citato dalla tv di stato, ha dichiarato che l’accordo è ormai vicino. Ci sono dunque buone possibilità che il negoziato si concluda entro agosto, quando il nuovo presidente si insedierà, e Rohani ha chiesto che il suo successore venga tenuto informato sui termini in via di definizione.

Ma nel tentativo di raggiungere l’accordo con l’Iran è possibile fare i conti senza l’oste? Israele ha più volte dichiarato, che a prescindere da quale governo la guidi, la sua sicurezza nazionale viene prima di qualunque accordo internazionale e se dovesse sentirsi in pericolo e sospettasse che un paese ostile come l’Iran, stia lavorando allo sviluppo di un’arma di distruzione di massa, non esiterebbe a intervenire.
Era il 1981 infatti quando Israele distrusse l’impianto nucleare iracheno di Osirak con attacco aereo a sorpresa. Mentre l’Iraq di Saddam Hussein cercava silenziosamente di ottenere l’arma nucleare, Israele senza attendere alcuna autorizzazione dell’Onu o l’appoggio di un paese alleato, distrusse in una notte il reattore nucleare iracheno.

I leader mondiali e l’opinione pubblica internazionale condannarono l’azione militare israeliana che avrebbe potuto incendiare il Medio Oriente. Solo dieci anni dopo, il mondo dovette ricredersi quando Saddam Hussein, dopo aver invaso il Kuwait, fu attaccato da una coalizione internazionale messa insieme dal presidente George Bush (padre) sotto l’ombrello della legalità dell’Onu. Un Iraq armato di nucleare avrebbe comportato seri pericoli non solo per Israele.
Pochi giorni fa, il governo di Benjamin Netanyahu è caduto ed è stato sostituito da una coalizione che va da destra al centro, guidata da Yamina Naftali Bennett. Come la diplomazia israeliana ha già dimostrato più volte, la strategia nei confronti della sua sicurezza non cambia con i mutamenti di governo. Una dottrina che può essere fatta risalire ai tempi della nascita dello stato e che dovrebbe far riflettere la comunità internazionale: un accordo tra Iran, Stati Uniti, Onu e Ue, senza una verifica concreta israeliana, servirebbe a poco per spegnere la polveriera mediorientale.
Israele, infatti, ha già avvertito l’Iran e il nuovo primo ministro Bennett ha invitato i suoi alleati a “svegliarsi“.