Il 25 agosto 2017, l’esercito del Myanmar ha iniziato una brutale repressione contro i musulmani Rohingya, che sono stati vittime di abusi, torture e omicidi di massa. Oltre 700 mila Rohingya sono fuggiti, per scappare da quello che le Nazioni Unite hanno definito “un esempio di pulizia etnica da manuale”. Già prima dell’esodo di massa, oltre 200.000 rifugiati Rohingya avevano trovato rifugio in Bangladesh, a seguito di precedenti forme di discriminazione dal Myanmar, tra cui il mancato riconoscimento della cittadinanza o l’impossibilità di potersi muovere liberamente nel paese, motivo per cui molti vivono in campi sovraffollati fuori dalla città di Sittwe, capoluogo del Rakhine. Le persone che scappano raccontano di centinaia di persone uccise, fra cui donne e molti bambini.
Sono passati 3 anni dal genocidio, e come riporta l’agenzia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), tre quarti di questo popolo oggi vive nel più grande campo profughi, Cox’s Bazar, dove sono stati registrati oltre 860.000 rifugiati Rohingya.

La situazione è rimasta tragica e il futuro appare incerto. I Rohingya rimasti nello Stato di Rakhine, in Myanmar, subiscono una grave repressione e gli vengono negati diritti fondamentali.
Chi decide di scappare, corre gravi rischi: i fuggitivi, nel tentativo di raggiungere le regioni vicine, si imbarcano, ma molti rimangono bloccati in mare per settimane. Si sono già verificate diverse morti, dopo che la Malesia e la Thailandia li hanno respinti con la scusa della pandemia Covid-19.
Ad aprile, 30 rifugiati Rohingya del Myanmar su un barca nel Golfo del Bengala sono morti, dopo aver trascorso 2 mesi in mare, mentre quasi altri 400 a bordo sono stati trovati disidratati, malnutriti e bisognosi di cure mediche immediate. L’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR) ha chiesto compassione.
In questi anni, soltanto il Bangladesh ha dimostrato un impegno umanitario, accogliendo molti dei rifugiati Rohingya, ma durante la pandemia, il governo del Bangladesh ha limitato enormemente i servizi umanitari nei campi profughi e ha interrotto tutti i servizi di protezione. Come denunciato da Human Rights Watch, già il 4 settembre 2019, il Comitato permanente per la difesa del Bangladesh, stanco di ospitare i Rohingya, aveva imposto limitazioni all’uso di internet e aveva chiesto all’esercito di costruire recinzioni di filo spinato e torri di guardia intorno ai campi profughi, nonostante l’opposizione delle Nazioni Unite.

Lo scoppio della pandemia ha complicato la situazione, colpendo l’ampliamento del programma alimentare mondiale (WFP) delle Nazioni Unite, che fornisce assistenza alimentare a quasi l’88% dei rifugiati, e dal quale quasi tutti i rifugiati dipendono interamente per sopravvivere. “La disponibilità di cibo nei campi, al di fuori dell’assistenza del WFP, si è ridotta e i prezzi sono aumentati”, ha detto martedì 25 agosto, a un briefing con i media, Elisabeth Byrs, portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite.
Inoltre, si teme che un’epidemia incontrollata di COVID-19 nei campi profughi possa essere devastante. Il campo principale di Cox’s Bazar, nel Bangladesh meridionale, è il più grande e sovraffollato del mondo, dove vivono diverse centinaia di migliaia di persone in un’area di soli 13 chilometri quadrati. Il distanziamento sociale è praticamente quasi impossibile.

Il sistema scolastico, a causa della pandemia, è stato interrotto da marzo, e a più di 300.000 bambini e adolescenti è stata tolta l’opportunità di apprendimento. Secondo Jean Gough, Direttore regionale dell’UNICEF per l’Asia meridionale, “I bambini rifugiati Rohingya hanno bisogno di opportunità per sviluppare conoscenze e abilità per il loro futuro. Ciò a sua volta consentirà loro di contribuire alla pace e alla stabilità”. L’UNICEF e i suoi partner stanno sostenendo gli sforzi per aiutare i bambini ad apprendere a casa, coinvolgendo genitori e tutori, nonostante il fatto che molti genitori non sappiano leggere e scrivere.
Ad aggravare la difficile situazione, sono state le forti piogge monsoniche, che hanno distrutto rifugi e spazzato via raccolti, colpendo 100.000 rifugiati.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, attraverso una dichiarazione rilasciata dal suo portavoce, Stéphane Dujarric, ha affermato che l’ONU continuerà a lavorare con tutte le parti interessate, compresi gli attori regionali, verso un futuro di sviluppo sostenibile, diritti umani e pace in Myanmar. Ha poi chiesto una maggiore urgenza per la crisi affrontando le cause profonde del conflitto e creando le condizioni per il ritorno sicuro, volontario, dignitoso e sostenibile di tutti i rifugiati. “La responsabilità ultima spetta alle autorità del Myanmar, che si sono impegnate ad attuare le raccomandazioni della Commissione consultiva sullo Stato di Rakhine”, ha detto.
L’appello del capo dell’ONU, Antonio Guterres, si aggiunge a quello della portavoce del WFP, Elisabeth Byrs, che ha affermato: “La comunità internazionale non deve voltare le spalle ai Rohingya”.