13 giorni bloccati nel Mediterraneo, al largo di Lampedusa, prigionieri della nave che li ha salvati – la Sea Watch 3 – dall’orrore dei campi libici. E sono le convenzioni internazionali, lo ricordiamo, a dire che quei migranti, nonostante la prassi più recente, non potevano e non possono essere riportati in Libia, Paese in conflitto e luogo di torture e sistematiche violazioni dei diritti umani. Ma neppure oggi, nonostante un ricorso, bocciato, al Tar del Lazio e l’appello alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, i 43 migranti a cui è vietato di toccare terra da quasi due settimane potranno finalmente scendere dalla nave. Dopo le affermazioni della comandante della Sea Watch, che si era detta pronta a far sbarcare i passeggeri a Lampedusa rompendo il divieto di Roma, è infatti giunta la risposta della Corte di Strasburgo alla richiesta di applicazione di “misure provvisorie” avanzata dal capitano e da circa 40 migranti presenti sulla nave. E la risposta è negativa: la Corte Europea non indica al Governo italiano le misure provvisorie richieste, cioè, in pratica, non richiede a Roma lo sbarco dei migranti.
La spiegazione di tale decisione è sintetizzata in una nota pubblicata dall’ufficio stampa della Corte: “Sulla base dell’articolo 39 del regolamento, la Corte può indicare misure provvisorie a ogni Stato firmatario della Convenzione Europea sui Diritti Umani”. Eppure – notano a Strasburgo – si tratta di “misure urgenti che, secondo la prassi consolidata della Corte, si applicano solo quando esiste un rischio imminente di danno irreparabile”. “La Corte”, si specifica poi, “accoglie queste richieste solo su base eccezionale, quando i ricorrenti, in caso contrario, affronterebbero un rischio reale di danno irreversibile”.
Un rischio che, in questo caso, secondo la Corte per ora non c’è, come già notato dal Tar del Lazio, in quanto dalla nave sono già state fatte scendere le 11 persone considerate più vulnerabili. Una decisione presa a seguito della lettura delle risposte alle domande sottomesse al Governo italiano e ai ricorrenti stessi. Ciononostante, la Corte ricorda che compete a Roma l’impegno di “continuare a fornire tutta la necessaria assistenza alle persone a bordo della Sea Watch che si trovano in situazioni di vulnerabilità a causa della loro età o del loro stato di salute”.
Attenzione: nonostante il ministro dell’Interno abbia esultato sui social per la sentenza della Corte, interpretandola come una conferma per le proprie politiche, sarebbe superficiale aderire acriticamente a questa interpetazione. L’organo di Strasburgo, infatti, sta in pratica dicendo che, sebbene non si profili alcun rischio imminente e irreparabile per i migranti lasciati a bordo al punto tale dall’acconsentire a una richiesta accolta solo su “basi eccezionali”, l’Italia deve continuare a garantire assistenza ai migranti più vulnerabili. In pratica, anziché sbarcarli in una volta sola, potrà continuare a farlo un po’ per volta, mano a mano che si profileranno nuove situazioni di vulnerabilità.
Ma che cosa pensa l’ONU della situazione? Circa un mese fa, gli esperti dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani Bachelet avevano inviato una lettera al Governo italiano, in cui elencavano le proprie preoccupazioni in merito ad alcuni punti del cosiddetto decreto sicurezza bis. Tra le altre cose, peraltro, si puntualizzava che l’applicazione di quelle disposizioni avrebbe potuto portare a una violazione del principio di non-refoulement, cioè il principio di non respingimento, sancito dalla Convenzione di Ginevra. “È stato ampiamente documentato in diversi report dell’Onu che i migranti in Libia sono soggetti ad abusi, torture, omicidi e stupri, quindi la Libia non può essere considerata un ‘place of safety’ per lo sbarco”. E anche sulla base di quelle perplessità, abbiamo chiesto al portavoce di António Guterres Stéphane Dujarric se il Segretario Generale fosse preoccupato della situazione, e se, a suo avviso, l’Italia, negando lo sbarco di potenziali richiedenti asilo, stesse rischiando di violare gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Ginevra e dal diritto internazionale più in generale.
Dujarric non ha risposto alla nostra seconda domanda, ma ha specificato che la posizione del Segretario Generale, e dunque quella dell’ONU, coincide con quella espressa in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato dall’UNHCR. L’agenzia, in effetti, aveva lanciato un appello rivolto non solo all’Italia, ma all’Europa nel suo complesso, chiedendo di far “sbarcare i migranti a bordo della Sea Watch, e non in Libia”. “In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato l’UNHCR sollecita gli Stati europei a richiamarsi ai principi di umanità e compassione e a consentire al gruppo di sbarcare”. L’agenzia ONU per i rifugiati aveva sottolineato: “Il soccorso in mare è una tradizione secolare ed un obbligo che non si esaurisce tirando le persone fuori dall’acqua. Un salvataggio può essere considerato completo una volta che i passeggeri hanno raggiunto la terraferma in un porto sicuro. Discussioni più ampie sugli Stati che dovranno accogliere il gruppo dovrebbero essere rimandate a dopo che sarà assicurata la sicurezza delle persone soccorse”.
“Credo che i miei colleghi dell’UNHCR si siano espressi efficacemente sulla situazione, e sono loro la voce delle Nazioni Unite quando si parla di rifugiati e della necessità, per gli Stati membri, di rispettare i diritti dei rifugiati e di assicurarsi che vengano trattati con umanità”, ha osservato Dujarric. Che ha sottolineato, in conclusione della sua risposta, anche la preoccupazione del Segretario Generale a proposito del traffico di esseri umani. “[Guterres] ha chiesto ripetutamente che gli Stati membri, insieme all’ONU”, partecipino al “Patto Globale sulle migrazioni e sui rifugiati [cioè i due Global Compact, ndr]”, per far sì che le migrazioni vengano gestite dagli Stati e non dalle organizzazioni criminali.
Niente da aggiungere, insomma, rispetto alla posizione espressa dall’UNHCR – che è quella, genericamente rivolta a tutta l’UE, di far scendere i migranti dalla nave –; nessun commento rispetto alla possibilità che il Governo italiano, negando lo sbarco, possa configurare una violazione del diritto internazionale.
Ulteriori preoccupazioni, però, sono state espresse dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Mauro Palma, che, sul caso, ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Il Garante nota che l’attuale situazione di stallo è dovuta a tre diverse scelte: la prima è “quella del Comandante della nave, che, sulla base di valutazioni che trovano conferma nell’orientamento di Organizzazioni internazionali come il Consiglio d’Europa, ha considerato non sicuro il porto indicato dalle Autorità libiche e ha indirizzato all’Italia molteplici richieste di indicazione di un porto sicuro, senza ottenere alcun riscontro positivo”; la seconda scelta “è stata operata dalle Autorità dell’Olanda, Paese del quale la nave batte bandiera, che non hanno ritenuto di inviare alcun tipo di supporto alla propria imbarcazione bloccata in mare”; la terza si deve alle “Autorità competenti italiane, che il 16 giugno hanno notificato alla nave Sea Watch 3 un divieto di ingresso, transito e sosta nelle nostre acque”.
Fermo restando che il Garante “non può né intende intervenire su scelte politiche che esulano dalla propria stretta competenza”, “è suo dovere agire per fare cessare eventuali violazioni della libertà personale, incompatibili con i diritti garantiti dalla nostra Carta, e che potrebbero fare incorrere il Paese in sanzioni in sede internazionale”. Palma, insomma, ribadisce “che le persone e loro vite non possono mai divenire strumento di pressione in trattative e confronti tra Stati. Ritiene inoltre che la situazione in essere richieda la necessità di verificare se lo Stato italiano, attraverso le sue Autorità competenti, stia integrando una violazione dei diritti delle persone trattenute a bordo della nave”. Il Garante, in particolare, si rifà al caso “Hirsi Jamaa c. Italia” (2012), che fece scuola nell’affermare che “tutte le forme di controllo dell’immigrazione e delle frontiere sono sopposte alle norme in materia di diritti umani, qualunque sia il personale incaricato di queste operazioni e il luogo in cui esse si svolgano”. Secondo Palma, il fatto stesso che l’Italia abbia esercitato la propria sovranità, opponendo divieto di sbarco, implica anche “che il Paese garantisca l’effettività dei diritti derivanti dagli obblighi internazionali alle persone bloccate: di non essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti; di non essere rinviati in Paesi dove ciò possa avvenire; di avere la possibilità di ricorrere contro l’attuale situazione di fatto di non libertà davanti all’autorità giudiziaria; di richiedere protezione internazionale”. E l’esercizio della giurisdizione italiana sull’imbarcazione “sembra confermato dalla valutazione delle vulnerabilità delle persone a bordo a cui è stato permesso lo sbarco”. Eppure, ribadisce, “non può essere però questa la sola via d’uscita dalla situazione presente che, a parere del Garante, sta degenerando”.