La Libia a un passo dal baratro. L’offensiva avviata nell’area di Tripoli dal generale Khalifa Haftar prosegue, mentre l’Ufficio ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari parla di migliaia di civili intrappolati in aree di conflitto a Sud della capitale. Non solo: più di 3000 migranti sono imprigionati nei centri di detenzione, in alcuni casi abbandonati dalle guardie e privi dei rifornimenti di prima necessità. Intanto, l’inviato speciale in Libia Ghassan Salame, in una intervista alla BBC, ha chiamato le cose con il proprio nome: quello in corso nella zone di Tripoli, ha affermato, “è più un golpe” che un’operazione antiterrorismo come ufficialmente annunciato dalle truppe di Haftar, “un tentativo di controllare la capitale del Paese, dove vive almeno un terzo della popolazione”, circa due milioni di persone. Salame ha peraltro confermato che l’operazione è “sostenuta da alcuni Paesi”. Certo: il rappresentante del Segretario Generale in Libia non ha specificato quali, ma è la prima volta che il responsabile della missione delle Nazioni Unite nel Paese nordafricano usa parole tanto eloquenti a proposito del rivale di Fayez Al Sarraj, leader del Governo sostenuto dall’ONU.
Circostanza, questa, che alimenta le voci secondo cui Salame, l’uomo che in teoria dovrebbe guidare la roadmap libica verso le nuove elezioni, sarebbe ormai prossimo alle dimissioni. Interrogato a questo proposito nel press briefing odierno alle Nazioni Unite, il portavoce del Segretario Generale Stéphane Dujarric non ha confermato e non ha smentito l’addio del diplomatico libanese – affermando di non aver ancora visionato l’intervista –, e neppure si è sbottonato sull’altra possibile intepretazione delle parole di Salame: e cioé che l’ONU, troppo cauto in passato, stia optando oggi per una nuova risolutezza nei confronti del generale della Cirenaica. In entrambi i casi, saremmo di fronte all’ennesima conferma della portata della crisi, che potrebbe avere effetti destabilizzanti non solo in Nordafrica, ma anche in Europa. Sarraj, del resto, in una intervista al Corriere, ha avvertito che il peggioramento della situazione in Libia potrebbe spingere 800mila migranti e cittadini libici verso le coste europee, cioè italiane. Ha inoltre specificato che in questo enorme numero di persone potrebbero nascondersi anche criminali e jihadisti legati a Isis.
Un allarme risuonato ovviamente nel nostro Paese, che proprio con Tripoli, sotto il precedente Governo, aveva negoziato un accordo per prevenire i flussi migratori e appaltare il salvataggio dei migranti – assicurando il loro ritorno in Libia – alla Guardia Costiera del Paese, nonostante le sue comprovate precedenti connivenze con i trafficanti di uomini e le drammatiche condizioni umanitarie nei campi libici. Il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, parlando a ‘Circo Massimo’ su Radio Capital, ha a questo proposito osservato che “in questa fase il pericolo che possano aumentare gli sbarchi è assoluto, è vero”, ma che, proprio per questo, “in caso di una nuova guerra non avremmo migranti ma rifugiati. E i rifugiati si accolgono. Chi dice che pensa al possibile attacco in Libia per risolvere il problema dei migranti sta facendo un errore enorme”. Un concetto già espresso dal vicepremier Luigi Di Maio, che al Corriere della Sera aveva osservato: “La chiusura dei porti è una misura occasionale. È risultata efficace in alcuni casi. Funziona ora, ma di fronte a un’intensificarsi della crisi non basterebbe”. Parole a cui ha risposto il ministro dell’Interno Matteo Salvini, proprio mentre giungeva la notizia di una nuova indagine per sequestro di persona a suo carico, dopo il caso Diciotti, questa volta della procura di Catania per la vicenda Sea Watch: “Finché sono ministro, i porti restano chiusi. Chiedo rispetto, mie le competenze su ordine e confini”. Ciliegina sulla torta nel valzer delle polemiche di casa nostra, l’aberrante titolo di Libero, che pure non sembra aver troppo sconvolto l’opinione pubblica: “In Italia non c’è posto, la Libia si tenga i neri”.
Al portavoce del Segretario Generale dell’ONU, noi della Voce abbiamo quindi chiesto conto proprio del possibile esodo di migranti dalla Libia, e dell’eventualità che l’Italia decida di tenere chiusi i propri porti in tale situazione di emergenza. “La designazione dello status di una persona avviene previo esame dei requisiti”, ci ha risposto, quando gli abbiamo domandato se le persone che tentano di fuggire dal Paese, a seguito degli ultimi sviluppi, si debbano considerare genericamente migranti o veri e propri rifugiati. “Ma è chiaro che le persone provenienti da altri Paesi che si trovano in Libia e che cercano di raggiungere l’Europa si trovano in grande pericolo per via dei combattimenti attuali, ed è altrettanto chiaro – come ha ripetuto il Segretario Generale – che la Libia non è un porto sicuro di sbarco per gli esseri umani, che siano migranti o rifugiati”. Alla stessa domanda, la portavoce della presidente dell’Assemblea Generale, Monica Grayley, ha affermato: “La Presidente sta seguendo la situazione in Libia con grande preoccupazione, e per lei il punto principale è che le persone vengano trattate con rispetto – che i loro diritti vengano rispettati –, e con dignità. Come sappiamo, queste persone si trovano in una situazione molto difficile. La Presidente condanna le violenze in Libia e l’escalation militare, chiede a entrambe le parti di cessare le ostilità e di fornire supporto agli operatori umanitari e ai civili”. La soluzione, ha proseguito, non può essere militare ma solo politica. Al nostro follow-up, Grayley ha ricordato come la Presidente, in occasioni passate, abbia ripetuto chiaramente che “serve solidarietà tra i Paesi per gestire l’arrivo di persone in situazioni di emergenza” e che “non un solo Paese dovrebbe ricevere questo movimento di persone al confine che cercano di fuggire violenza e guerre”. In pratica, secondo la leader dell’Assemblea Generale, la responsabilità non può essere solo italiana, ma deve essere considerata europea. Questo, ha sottolineato, è peraltro uno dei principi sanciti da Global Compact on Migration, che, ricordiamo noi, contrariamente a quello sui Rifugiati, anche l’Italia ha firmato.
Altra questione aperta, quella dell’unità del Consiglio di Sicurezza, spesso rivendicata nelle dichiarazioni ufficiali, ma che ancora non ha prodotto, nei fatti, alcun effetto sulla situazione. Il Consiglio, quando unito, ha a disposizione gli strumenti, previsti dal Chapter VII della Carta ONU, per avere un impatto concreto sulle crisi. Il Segretario Generale – abbiamo chiesto al suo portavoce – ha avuto l’opportunità di sfruttare tale compattezza del Consiglio, oppure l’influente organismo ONU non è poi così unito sulla questione libica? “Lascio a voi l’analisi delle parole e delle azioni del Consiglio di Sicurezza”, ha risposto. “Quello che è chiaro è che il Segretario Generale e il suo inviato stanno lavorando sulla base delle risoluzioni e del mandato del Consiglio di Sicurezza”.
Risposte diplomatiche, che non si sbottonano troppo né nel commentare le politiche migratorie del nostro Paese alla luce dei nuovi avvenimenti, né tantomeno i posizionamenti geopolitici nella crisi libica degli Stati membri del Consiglio di Sicurezza. Posizionamenti tornati sotto i riflettori, nei giorni scorsi, quando un mercenario egiziano (l’Egitto è tra i principali sponsor di Haftar) avrebbe confessato al Libya Observer la presenza di consiglieri militari francesi a bordo di un volo in partenza da Benina, l’aeroporto di Bengasi, e diretto a Jufra per l’offensiva di Haftar su Tripoli. Per non parlare, poi, della visita del figlio del generale della Cirenaica a Parigi lo scorso 4 aprile, di cui è rimasta traccia per il fatto che, il giorno successivo, il volo utilizzato dal generale della Cirenaica per raggiungere Bengasi era partito proprio dalla capitale francese.
Circostanze che confermerebbero un mai interrotto sostegno francese ad Haftar – che in effetti da Parigi è sempre stato più o meno esplicitamente appoggiato –, nonostante le dichiarazioni ufficiali rilasciate al Palazzo di Vetro lasciassero intendere piena coerenza con la posizione ufficiale delle Nazioni Unite. In Europa, secondo l’agenzia di stampa Reuters Parigi avrebbe scoperto maggiormente le carte, bloccando un documento che chiedeva ad Haftar di fermare la propria offensiva. Tornando al Palazzo di Vetro, proprio in queste ore, ha fatto sapere la rappresentante permanente di Londra Karen Pierce, il Consiglio potrebbe essere in grado di produrre un testo sulla crisi libica – a favore di un cessate il fuoco e di un rinnovato impegno di entrambe le parti a riprendere i negoziati guidati dall’ONU –, ma ancora non si sa se si tratterà di una dichiarazione del Presidente o di una bozza di risoluzione. Sarebbe, questo, un primo passo per far sentire finalmente la voce della comunità internazionale, ad oggi rimasta flebile – probabilmente a causa delle innegabili divisioni esistenti –, su una crisi che potrebbe assumere proporzioni devastanti.
Ma perché Haftar si sarebbe mosso proprio ora? C’è chi punta il dito contro la recente visita di Haftar in Arabia Saudita, durante la quale secondo il Wall Street Journal Riad avrebbe assicurato al suo neo protetto i fondi necessari per la sua avanzata. L’ennesima occasione – afferma il giornale israeliano Haaretz – che vedrebbe i sauditi impegnati a rintuzzare le scintille di un conflitto regionale, come avvenuto in Yemen. In questa luce, non sarebbe casuale la visita ufficiale a Roma per il Vice Primo Ministro e Ministro degli Esteri del Qatar, Sceicco Mohammed Al-Thani, che oggi ha incontrato, rispettivamente a Palazzo Chigi e alla Farnesina, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Enzo Moavero Milanesi. Al centro dei colloqui, in entrambe le occasioni, un approfondito scambio di vedute sulle più recenti dinamiche della crisi libica.