Il 16 gennaio il Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha aggiornato l’Assemblea Generale sui problemi affrontati e sui risultati conseguiti dal sistema nel corso del 2018, nonché sulle sue priorità per il 2019. In quella occasione ha ammesso che le Nazioni Unite sono state “estremamente ingenue” nel periodo che ha preceduto l’adozione del Global Compact sulle Migrazioni. Circa due mesi prima della Conferenza di Marrakesh del dicembre 2018, una campagna lanciata su varie piattaforme di social media ha diffuso alcune menzogne sul Global Compact:
- La prima indicava che la sua approvazione avrebbe trasferito alle Nazioni Unite, a scapito dei singoli stati, la responsabilità di trattare le questioni migratorie;
- La seconda affermava che il Global Compact avrebbe affermato un nuovo diritto umano – il diritto a migrare;
- La terza sosteneva che gli stati avrebbero perso la capacità di controllare i propri confini.

Ognuna di tali affermazioni è manifestamente falsa; eppure esse sono state proposte come verità oggettive da mass media, partiti politici e movimenti che hanno utilizzato simili argomenti nel contesto di dibattiti politici altamente polarizzati sul delicato tema delle migrazioni. La campagna sui social media ha alla fine talmente influenzato l’opinione pubblica che alcuni governi, che avevano in precedenza sostenuto il Global Compact, hanno deciso di non partecipare alla Conferenza di Marrakesh. E tutto ciò è accaduto nonostante il fatto che il Global Compact rispetti il principio della sovranità nazionale; che non stabilisca un nuovo diritto umano alla migrazione (sebbene affermi la necessità di un approccio alle migrazioni internazionali basato sul rispetto dei diritti umani); e che non imponga politiche ONU nè in materia di controllo di confini nazionali, nè a proposito di politiche migratorie adottate da singole nazioni.
Il Segretario Generale Guterres ha sottolineato che l’ONU ha notevolmente sottostimato la minaccia rappresentata dalla campagna sui social media nei confronti del Global Compact e la capacità di comunicare fatti falsi approfittando dei timori e delle percezioni della gente che alcuni attori politici hanno efficacemente utilizzato per rinforzare posizioni xenofobe. Ha detto che l’ONU ha bisogno di cambiare sia il modo in cui comunica su ciò che fa, sia quello in cui si connette emotivamente con la gente. Ha aggiunto che non basta argomentare razionalmente a proposito del Global Compact; è necessario comunicare anche empaticamente. Ad esempio, è chiaro che il Global Compact definisce meccanismi di cooperazione internazionale per migrazioni sicure, ordinate e regolari al fine di trattare problemi che un qualunque paese non sarebbe in grado di risolvere in isolamento. Sarebbe dunque nell’interesse di tutti i paesi – di origine, transito o destinazione – che un simile e importante quadro fosse adottato per incrementare le limitate capacità che singoli paesi possono dispiegare per affrontare la questione, specialmente in una fase nella quale i flussi migratori mutano in natura e grandezza in conseguenza di cause differenti, come guerre, crisi politiche ed economiche, disastri naturali e nuove sfide, quali l’impatto del mutamento climatico. Ma il successo conseguito dalla campagna contro il Global Compact dimostra che bisogna parlare non solo alla mente, ma anche al cuore della gente.
Il Segretario Generale Guterres ha tratto alcune lezioni da questa esperienza. Ha detto che simili campagne probabilmente si ripeteranno, specialmente alla luce dell’attuale crisi del multilateralismo. Ha sottolineato che l’ONU dovrebbe sforzarsi di comunicare meglio con il suo pubblico, per dimostrare che il sistema non solo è efficace nel proporre soluzioni pratiche, ma è anche più connesso con i bisogni, le aspirazioni e i problemi delle persone delle quali l’ONU si preoccupa.
Ascoltando le parole di Guterres mi è venuto in mente un film intitolato The Glass Wall (Il muro di vetro) diretto da Maxwell Shane nel 1953, perché alcuni dei suoi dialoghi sono indicativi di come l’ONU potrebbe comunicare in maniera più empatica, sia sul Global Compact che su altre questioni globali al centro del multilateralismo. Si tratta della prima pellicola girata nel quartier generale dell’ONU a New York; in effetti, ci vollero oltre cinquant’anni prima che le Nazioni Unite autorizzassero nuovamente la produzione di un film – The Interpreter (2005) – nello stesso edificio. The Glass Wall tratta gli stessi temi affrontati dai Global Compact dell’ONU sulle Migrazioni e sui Rifugiati. Il film fu girato due anni dopo l’adozione a Ginevra della Convenzione sui Rifugiati del 1951 e cinque anni dopo l’approvazione della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani del 1948.
Il protagonista è Peter Kuban, un profugo – letteralmente “Displaced Person” (DP) – ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti che riesce a imbarcarsi clandestinamente su una nave di rifugiati nel porto di Trieste. Poiché non è in grado di provare la sua identità e il contributo che ha dato alla causa alleata durante la guerra (aveva salvato un paracadutista statunitense dalla morte, il che lo qualificherebbe per l’immigrazione legale, ma non può provarlo senza la testimonianza del soldato), l’ufficiale dell’immigrazione dispone la sua deportazione in Ungheria, nonostante la minaccia per la sua vita rappresentata da un rimpatrio. Saltando dalla nave sulla banchina del porto, Kuban si mette alla disperata ricerca dell’amico da lui salvato, di cui conosce solo nome, professione (sassofonista) e il fatto che vive a New York; e ha una sola notte a disposizione per ritrovarlo, altrimenti sarà espulso come “illegal alien”. Contro ogni probabilità, dopo una lunga caccia all’uomo, egli verrà accettato negli Stati Uniti.
Dopo un lungo peregrinare, all’alba, Kuban entra nella sede dell’ONU che era stata allora appena completata. La scena più importante del film ha luogo in una deserta “Commissione sui Diritti Umani”, che ricorda esattamente la sala del Trusteeship Council nella quale il Segretario Generale Guterres ha pronunciato il suo discorso lo scorso 16 gennaio. Di fronte alle sedie vuote dei paesi membri, Kuban fa un appassionato monologo. Ecco le sue parole: “Qualcuno, qualcuno mi ascolti… Voi… voi venite qui a portare la pace nel mondo. Ma cosa è il mondo? Finché ci sarà un uomo che non potrà camminare libero dove vuole, finché ci sarà un profugo senza casa, non ci sarà pace! Perché per ciascun uomo, egli é il mondo!… Nessuno mi ascolta!”
Le parole del Segretario Generale Guterres mi hanno impressionato perché riflettono quelle di Kuban. Sono stato particolarmente colpito dalla rilevanza del film rispetto all’attuale dibattito sul Global Compact. Innanzitutto, alcuni attori agiscono nella pellicola del 1953 in un modo difficile da immaginare oggi:
- Il protagonista è un ungherese e l’Ungheria di Viktor Orban ha abbandonato il consenso sul Global Compact sulle Migrazioni; inoltre, durante la ricerca del suo amico, Kuban è aiutato da una famiglia di ungheresi naturalizzati americani, un fatto che contrasta con la percezione attuale degli Stati Uniti come di un paese che sostiene politiche anti-immigrati;
- L’attore che interpreta il ruolo del protagonista è Vittorio Gassman (che, al tempo, era sposato con Shelley Winters), un’autentica icona italiana. Ciò rende il film assai significativo, dal momento che l’Italia è uno dei paesi grandemente influenzati dalla campagna sui social media descritta dal Segretario Generale Guterres, al punto che il governo italiano ha cambiato posizione sul Global Compact sulle Migrazioni tra luglio 2018 (completamento del documento finale), settembre 2018 (sostegno al Global Compact dato dal Presidente del Consiglio Conte nel suo discorso all’apertura della 73ma sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU) e novembre 2018 (decisione di non inviare una delegazione italiana alla Conferenza di Marrakesh);
- I rifugiati che cercano asilo negli Stati Uniti viaggiano da Trieste a New York in nave, dalla quale il protagonista salta giù, un atto che richiama gli sforzi fatti da molti richiedenti asilo per raggiungere le coste europee partendo da quelle dell’Africa settentrionale.
A un livello più approfondito di analisi, la scelta registica di mostrare il monologo di un profugo di fronte a una sala vuota nell’edificio appena costruito dell’ONU anticipa i rischi di irrilevanza del sistema multilaterale in discussione oggi, a 66 anni di distanza, se l’ONU non riuscirà a parlare alle persone che sono al centro del suo mandato dei loro problemi e bisogni. Questa scelta è anche molto rilevante in relazione al ragionamento svolto dal Segretario Generale Guterres sull’importanza di un modo più efficace di comunicare ciò che l’ONU sostiene. La scena di un monologo pronunciato da una persona sola e disperata nel vuoto di un’architettura modernista, catturato con il freddo registro di una fotografia in bianco e nero, provoca quel tipo di reazione emotivamente in sintonia, empatica e premonitrice, che è necessaria per mettersi in contatto con il cuore del pubblico delle Nazioni Unite.
Senza dubbio, The Glass Wall tratta il tema delle migrazioni e dei rifugiati in termini, assai diversi da quelli odierni, coerenti con il discorso pubblico del secondo dopoguerra. Da allora il contesto è profondamente cambiato. È evidente, ad esempio, che un trattato come la Convenzione sui Rifugiati del 1951 non si potrebbe oggi negoziare nello stesso modo di allora, alla luce dell’attuale atmosfera politicamente ‘avvelenata’. Il film, tuttavia, ci manda ancora un messaggio chiaro e forte. In un’altra scena memorabile, una madre ungherese-americana schiaffeggia il figlio perché egli si rifiuta di aiutare uno “straniero pidocchioso”, dicendo: “Non dimenticare mai che tuo padre era un pidocchioso straniero!”. In effetti tendiamo a dimenticare questo semplice e sconveniente fatto. La migrazione è una componente fondamentale della memoria storica di molti paesi, anche se molti di loro sembrano rigettare la stessa idea che “i popoli in movimento” siano al centro del mutamento economico, sociale e culturale.