In queste ore le Nazioni Unite, e il mondo intero, celebrano un anniversario importante: il 70esimo dall’adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Un documento, in sé, non vincolante, ma che fu adottato con lo scopo esplicito di fornire una definizione precisa delle libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo presenti nella Carta ONU, vincolante per tutti gli Stati. Ma andiamo con ordine: come nacque la Dichiarazione?
Panorama storico
Il cammino storico che portò alla sua stesura e, in seguito, alla sua adozione fu costellato di ostacoli. L’antefatto non poteva che essere la Seconda Guerra Mondiale, il nazi-fascismo e il suo accanimento sanguinario contro gli ebrei e la loro dignità di esseri umani. Con la fine della guerra, la comunità internazionale si rese conto che era necessario impegnarsi per garantire all’umanità che mai più nulla di simile potesse accadere nel mondo. Già nel 1941, l’allora presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt rivolse al Congresso un discorso che sarebbe divenuto storico, per cercare di distogliere la politica estera degli Stati Uniti dalla neutralità a cui era saldamente abbarbicata. In quel discorso, Roosevelt parlò di “quattro libertà” fondamentali: la libertà di parola e di espressione, la libertà di professare la propria fede, la libertà dal bisogno e quella dalla paura. Tutti valori che Roosevelt rivendicava fieramente agli Stati Uniti d’America, ma che riteneva, in sé, universali, condivisibili per tutti gli uomini e le donne di tutte le nazioni del mondo.
Pochi mesi dopo la sua morte, quando, nella conferenza di San Francisco del 1945, si stava creando la Carta delle Nazioni Unite, sussisteva tuttavia ancora il pericolo che, nel dibattito tra le nazioni, la difesa dei diritti subisse di fatto una battuta d’arresto. Proprio per evitare questa prospettiva, non solo i diritti umani vennero menzionati sette volte nella Carta, ma quel documento, legalmente vincolante, stabilì che un’apposita commissione si sarebbe dovuta occupare della questione.
Diritti umani: una materia storicamente rivoluzionaria
Nonostante la Seconda Guerra Mondiale fosse ufficialmente terminata, i tempi erano comunque difficili: si pensi all’apartheid in Sud Africa, alla guerra indo-pakistana, al regime di Stalin in Unione Sovietica, allo spettro della Guerra Fredda, che progressivamente faceva calare una cortina di ferro a dividere il mondo in due. E negli Stati Uniti, patria delle quattro libertà, la segregazione razziale era la brutale normalità quotidiana. Non è difficile intuire, dunque, la portata rivoluzionaria che ebbe il lavoro di una commissione che per la prima volta arrivò a sancire l’uguaglianza di tutti gli individui, indipendentemente dal sesso, dal colore della loro pelle, dalla loro religione o appartenenza etnica. Non è un caso che quella storica commissione – nella quale furono rappresentate 18 nazioni – fu presieduta da una donna: Eleanor Roosevelt, moglie del defunto Presidente promotore delle Four Freedoms.
I “fondatori”
Nei due intensi anni di lavoro, spiccarono come protagonisti del dibattito alcune figure che, ancora oggi, vengono ricordati come i “fondatori” della Dichiarazione. Oltre alla Roosevelt, che volle accertarsi che il Documento avrebbe conservato l’impronta delle libertà tanto care al marito, vi fu John Peters Humphrey, professore di legge canadese a cui fu affidato il compito di raccogliere tutta la letteratura già esistente in tema di diritti umani: ed ecco come, alla Dichiarazione, poté contribuire il pensiero di personaggi come Benedetto Croce, Gandhi o H. G. Wells. Poi ci fu René Cassin, giurista francese che anni dopo avrebbe vinto il Premio Nobel per la Pace, e che fu il vero artefice dell’architettura e dell’organicità del documento finale.
Alla ricerca di un’idea di diritti condivisa
La discussione non fu sempre semplice: come in tutti i processi di negoziazione, le nazioni dovettero ricercare punti di accordo e compromesso su questioni delicatissime, che mai prima di allora avevano trovato una sistemazione a tal punto ufficiale. A Hansa Jivraj Mehta, – attivista indiana per la libertà e i diritti delle donne scelta dal primo ministro Jawaharlal Nehru per rappresentare l’India nel processo – si deve, ad esempio, la formulazione finale del primo articolo, che lo si volle ispirato alla Dichiarazione di Indipendenza USA. Mehta, tuttavia, temette che la dicitura “all men are created free and equal” potesse essere presa come troppo letterale. Per questo, si preferì usare l’espressione, non connotata dal punto di vista del genere, “human beings”. L’uso del verbo “created” suscitò invece le preoccupazioni dell’Unione Sovietica, per le sue implicazioni religiose: per questo, venne infine scelto il verbo “are born”, “All human beings are born free and equal”.
Questo non fu, naturalmente, l’unico nodo da sciogliere nella stesura della Dichiarazione. Altra sfida, questa volta più concettuale che terminologica, fu decidere quali tipologie di diritti includervi: si trattò, principalmente, di capire se, oltre a quelli politici e civili, contemplare nel novero dei diritti umani anche quelli economici e sociali. In questo, l’Est e l’Ovest avevano due visioni diverse: l’Unione Sovietica temeva che questi ultimi venissero trattati come inferiori rispetto alle altre categorie; l’altro gruppo, capeggiato dall’Inghilterra, li riteneva invece differenti dai primi al punto da meritare la trattazione in un diverso documento. Oggi, ai diritti economici e sociali (compreso quello alla salute!) è dedicato il blocco degli articoli dal 22 al 27.
Universale
Quanto al nome del documento, fu Cassin a preferire la dicitura “Universale” a “Internazionale”. L’universalità dei diritti indica, infatti, un’aspirazione comune di tutti gli uomini a quei valori, declinata nelle differenti culture. I fondatori, insomma, più che un principio di omogeneità, avevano in mente proprio il valore dell’universalità.
La versione finale, votata dall’Assemblea Generale, vide 48 Paesi a favore, nessuno contrario e otto astenuti: tra questi, l’Unione Sovietica, la Yugoslavia, l’Arabia Saudita e il Sud Africa. Due Paesi non votarono: l’Honduras e lo Yemen. Il numero piuttosto basso di nazioni chiamate ad esprimersi sull’argomento è dovuto al fatto che gli altri Paesi sono entrati a far parte delle Nazioni Unite solo in un secondo momento.
La Dichiarazione, oggi
Costituita da 30 articoli, oggi la Dichiarazione è il documento sui diritti umani certamente più noto e citato al mondo. È tradotto in 336 lingue nazionali e locali e, pur non essendo formalmente vincolante, è la base di diverse convenzioni successivamente adottate dalle Nazioni Unite: per esempio, la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici e la Convenzione Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, entrambi vincolanti. I suoi principi sono sanciti ed elaborati in diversi trattati internazionali: dalla Convenzione Internazionale contro le discriminazioni razziali a quella contro la discriminazione delle donne, dalla Convenzione ONU sui diritti dei bambini a quella contro la tortura. Non solo: è stata incorporata nelle Costituzioni e nei sistemi normativi di molti Paesi, e costituisce una base di indubbia legittimazione per l’attività dei difensori dei diritti umani che operano nel mondo. Diversi giuristi, infatti, la ritengono parte del diritto internazionale consuetudinario, e la considerano dunque uno strumento importante di pressione nei confronti dei governi che commettano violazioni. Nel 1968, la Conferenza Internazionale ONU sui Diritti Umani caldeggiò che la Dichiarazione divenisse “un obbligo per i membri della comunità internazionale”.
Nell’inaugurare la mostra organizzata per l’occasione al Palazzo di Vetro, il segretario generale ONU Antonio Guterres, qualche giorno fa, ha ricordato che “i diritti sociali, politici e culturali incastonati in questo fondamentale documento appartengono a chiunque, dovunque, indipendentemente dalla razza, dal colore, dal sesso, dalla lingua, dalla fede o dalle opinioni”. Guterres ha però giustamente fatto presente che “alle parole della Dichiarazione non corrispondono ancora i fatti concreti”. È vero: viviamo in un mondo dove i diritti civili, politici, sociali ed economici di ampie fasce della popolazione globale sono drammaticamente sotto attacco. Una crescente retorica intollerante contro migranti e minoranze, regimi illiberali che perseguitano per etnia, sesso, orientamento sessuale o confessione religiosa, ma anche un sistema economico occidentale foriero di insolubili diseguaglianze mettono ogni giorno a rischio i principi che quella Dichiarazione, settant’anni fa, mirava ad affermare e difendere. Principi che, soprattutto di questi tempi, dovrebbero considerarsi un patrimonio ideale dell’umanità, che sta a questa e alle prossime generazioni salvaguardare e, soprattutto, mettere in pratica.