“Quella del clima è già oggi una questione di vita o morte”. Con queste parole Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha dato il via ai lavori della Conferenza climatica COP24, che si è aperta pochi giorni fa a Katowice, nel sud della Polonia. Un intervento, il suo, ricco di amarezza per la situazione del pianeta, ma anche per la constatazione della poca volontà di molti paesi di voler fare qualcosa di concreto per evitare conseguenze catastrofiche.
É questo il rischio davanti al quale i ricercatori hanno messo i partecipanti ai lavori dalla COP24. Nonostante le tesi negazioniste di alcuni paesi, guidati dagli USA di Trump, i numeri non lasciano adito a dubbi. A confermarlo è stato lo stesso IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change: gli impegni di Parigi non basteranno a mantenere l’innalzamento delle temperature entro 1,5 °C. La situazione è molto più grave del previsto, come ha dichiarato il vicepresidente dell’IPCC, Youba Sakona, che ha confermato come ben 6mila le ricerche scientifiche dimostrano che “gli impegni presi dai governi a partire dall’Accordo di Parigi non sono sufficienti per mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 2 gradi, al contrario ci porterebbero al raggiungimento dei 3 gradi entro la fine del secolo”.
I cambiamenti ormai non sono più previsioni future (come avveniva a Parigi in occasione della COP21): sono già ben visibili in molte zone del pianeta. Secondo gli esperti dell’IPCC, per limitare l’aumento delle temperature medie globali a 1,5 gradi (livello già oggi raggiunto) sarebbe indispensabile ridurre le emissioni di diossido di carbonio, CO2, del 45 per cento circa entro il 2030, rispetto ai livelli del 2010. E azzerarle entro il 2050!
I 20 anni più caldi sono stati registrati negli ultimi 22 anni, con gli anni dal 2015 al 2018 nella “top four”, come ha confermato il WMO. Che la situazione era già grave e che questi cambiamenti non erano legati a fenomeni naturali come El Nino (più e più volte accusato di essere il responsabile del surriscaldamento globale) era chiaro da tempo [lo scrivemmo anche noi, anni fa, nel libro Guerra all’Acqua, (Ed. Rosemberg & Sellier).
“Questo è un momento cruciale per tutti noi, un vero e proprio test per l’umanità”, ha sottolineato Jennifer Morgan di Greenpeace International. “A Katowice i leader di tutti i Paesi del mondo devono sfidarsi a guardarsi in faccia e affermare di essere al fianco di tutti noi. Quelli che non lo faranno saranno condannati dalla Storia e ne dovranno render conto. Alla CoP24, i governi devono agire e impegnarsi, entro il 2020, ad allineare i loro piani nazionali sul clima all’obiettivo di mantenere l’incremento delle temperature entro 1,5°C”.
Di fronte agli appelli che continuano a provenire dal mondo scientifico e ambientalista e che non sono più basati su previsioni (come era accaduto a Parigi), ma su dati reali, i rappresentati di molti paesi continuano a fare finta di non capire. A cominciare proprio dal paese ospitante. Il presidente Andrzej Duda ha sottolineato che la responsabilità politica sul clima deve essere basata sullo sviluppo equilibrato fra natura e tecnologia nonché il rispetto della dignità umana. Un’affermazione ambigua specie considerando che proprio la Polonia è stata più volte accusata di abbattere l’ultima foresta millenaria d’Europa (il Ministro Jan Szyszko ha chiesto pubblicamente la revoca del titolo di sito protetto dall’Unesco, che vieta le attività umane per ampliare l’area soggetta a disboscamento). Il governo polacco ha cercato di presentare Katowice come una città “green”, ma sono stati in molti a sorridere guardando le ciminiere della centrale elettrica: la città sorge al centro della Slesia, l’area di estrazione del carbone in Polonia (l‘80% della sua energia proviene da questa fonte fossile che è tra le più inquinanti in assoluto).
Anche la presenza, anzi l’assenza di molti leader e capi di stato alla manifestazione è significativa. A Parigi erano presenti i capi di stato di quasi tutti i paesi del pianeta. Ora in Polonia partecipano per lo più le delegazioni. Un segno che unito al fatto che aumenta il numero dei paesi che si stanno tirando indietro dagli accordi della COP21, la dice lunga su quali potranno essere i risultati finali della COP24. E ancor di più della prossima COP, la 25 che sulla carta dovrebbe svolgersi in Brasile. Se non fosse per il fatto che il nuovo presidente, Jair Bolsonaro, ha già annunciato di non essere più interessato ad ospitare l’evento (una decisione che molti hanno collegato alla decisione di disboscare una quantità enorme di foresta amazzonica: tra il 2017 e il 2018 sono stati tagliati 7.900 chilometri quadrati di foresta “più o meno un milione di campi di calcio disboscati in appena un anno” come ha ricordato il coordinatore di Greenpeace Brasile, Marcio Astrini).
Nella sua nota il segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres, non ha usato mezzi termini: “Abbiamo veramente un grosso problema”, ha ribadito. “Non stiamo ancora facendo abbastanza, né ci muoviamo abbastanza in fretta per prevenire un dissesto climatico irreversibile e catastrofico”. Il segretario dell’ONU ha indicato quattro settori (“semplici messaggi”, li ha definiti) su cui è necessario intervenire. Il primo è dare una risposta significativamente più ambiziosa ai progressi scientifici. Il secondo è rendere operativo l’accordo di Parigi. Il terzo è assumersi la responsabilità collettiva di investire per evitare il caos climatico globale (tenendo conto degli sforzi sotto il profilo economico e gli impegni finanziari assunti a Parigi). Da ultimo considerare l’attenzione verso il clima via migliore per trasformare il mondo in meglio.
Guterres sa bene che “non sarà un negoziato facile”. Neanche con l’aiuto della Banca Mondiale che ha annunciato di voler sostenere il cambiamento verso la riduzione delle emissioni di CO2 con 200 miliardi di dollari in 5 anni. O con quello della Germania che ha annunciato di voler sostenere con 1.5 miliardi di dollari il Green Climate Fund.
Tra i temi più importanti in ballo in questi giorni ci sarebbe il cosiddetto “Paris rulebook”: ovvero il programma per i governi per registrare – e cosa non meno importante – comunicare ufficialmente, le proprie emissioni di gas serra e gli sforzi per ridurle. Non bisogna dimenticare, infatti, che è ancora estremamente diffusa la pratica della compensazione.
Per il resto, anche la COP24 come molte delle riunioni sull’ambiente che l’hanno preceduta è stata più una grossa messa in scena mediatica che altro. Uno spettacolo fatto di proclami da parte di star dello spettacolo, appelli di adolescenti sconosciuti e anziani documentaristi famosi, pranzi e cene luculliani e temi il cui rapporto con i cambiamenti climatici è spesso difficile da comprendere (come la parità tra i sessi…).
Nessuno pare voler affrontare il tema fondamentale: alla COP24 (come a tutti gli incontri sull’ambiente che si sono svolti dopo la COP21 di Parigi) manca una leadership, interna o esterna, in grado di pesare in modo determinante sulle scelte in materia ambientale della maggior parte dei paesi del pianeta. Dopo la decisione degli USA di uscire dagli accordi, nessun paese è stato in grado di prendere il suo posto: né la Cina (che rimane uno dei maggiori responsabili delle emissioni di CO2 al mondo) né l’Europa, troppo divisa e diversa al proprio interno per poter assumere decisioni unitarie credibili a livello internazionale. Per il resto, quello che emerge è una specie di vuoto decisionale, tra paesi che dichiarano di non poter rispettare i limiti per la salvaguardia dell’ambiente (come la Polonia o il Brasile) “costrette” a far fronte a priorità economiche interne in realtà causate da una sistema di sviluppo sbagliato, e paesi (come l’India o molti paesi africani) che avallano il “diritto”, peraltro riconosciuto dalla stessa COP21, di poter inquinare “un po’ di più” visto la propria arretratezza.
A tutto questo si aggiungono le pressioni delle multinazionali e della grande industria: a questi mostri (prima di tutto per dimensioni) dell’economia mondiale e ai loro azionisti (prima di tutto le banche) non importa cosa accadrà nel 2100. A loro interessa solo vendere di più, spendendo meno. Su loro non hanno alcun effetto le parole pronunciate a Bonn, da Frank Bainimarama, primo ministro delle Isole Fiji e presidente della COP23 che parlavano di “talanoa” che, in figiano, significa “parlare con il cuore”.
É questo il vero e unico motivo per cui, a Parigi come a Bonn e adesso in Polonia, le misure per la salvaguardia dell’ambiente hanno trovato così tanti ostacoli. Ed è per questo che le misure adottate a Parigi, e apparse a molti da subito palesemente insufficienti, non sono mai state messe realmente in pratica.
La dichiarazione di Guterres pare non aver compreso il peso delle multinazionali sull’ambiente. “Strong economic growth, reduced inequality and limiting carbon emissions are possible and compatible”, si legge nel suo invito di apertura. La verità è che le disuguaglianze in tutto il pianeta stanno aumentando in molti settori. E quello dell’impatto ambientale è uno di questi: da un lato pochi paesi ricchi e sviluppati responsabili dei maggiori danni sinora fatti all’ecosistema e delle emissioni di CO2, dall’altro uno stuolo di piccoli paesi le cui economie spesso non raggiungono il fatturato delle maggiori multinazionali del pianeta incapaci di far sentire la propria voce.
Anche l’invito accorato del segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres, non sembra aver raggiunto il “cuore” di chi continuerà ad inquinare come e più di prima.
Per il resto, tra qualche giorno, ai partecipanti alla COP24, non resterà che prendere atto di questo stato di cose e trovare un modo quanto più diplomatico possibile (i primi esempi hanno già cominciato a circolare nei corridoi) per rimandare tutto alla prossima conferenza per l’ambiante, la COP25. Sempre che si riesca a trovare disposto ad ospitarne i lavori …