E’ l’ultima settimana di presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza ONU, e di nuovo di Libia – insieme all’Africa in generale e al Mediterraneo protagonista della leadership di Roma – si parla. Se ne parla, però, questa volta non su iniziativa primaria della Missione italiana dell’ambasciatore Sebastiano Cardi, che, dopo aver aperto il mese di novembre con un briefing dell’Alto Commissario Onu per i Rifugiati Filippo Grandi, ha già organizzato diversi meeting sul tema: non da ultimo, la scorsa settimana, l’open debate sul traffico di esseri umani e sulla tratta che ha avuto ospite Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur per le Nazioni Unite sull’argomento. La questione pareva insomma, almeno da programma, essere già stata sufficientemente approfondita, e dunque destinata a lasciare spazio, nel corso dell’ultima settimana, ad altri dossier parimenti scottanti.
Così non è stato. Perché la Francia, che ha preceduto l’Italia nel ruolo di presidente del Consiglio di Sicurezza, ha proposto e organizzato un nuovo meeting, a cui hanno partecipato, in videoconferenza da Ginevra, William Lacy Swing, Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, e, ancora una volta, Filippo Grandi dell’UNHCR. Meeting puntualmente anticipato in un colloquio telefonico tra il ministro degli Esteri Angelino Alfano e il collega francese Jean-Yves Le Drian. La scelta dei due briefers, peraltro, non pare affatto casuale. E giunge dopo lo scandalo internazionale scatenato dai video pubblicati dalla CNN, che mostrano migranti venduti come schiavi. D’altronde, UNHCR e OIM sono le organizzazioni deputate a intervenire sempre più pervasivamente in Libia per alleviare le atroci sofferenze dei migranti e dei rifugiati chiusi nei centri di detenzione, centri che versano in condizioni disumane più volte, anche in sede di Consiglio di Sicurezza, oggetto di rilievi e denunce da parte della comunità internazionale. Al punto che la metafora del “lager” non pare niente affatto peregrina.
Ed è proprio su questo punto specifico che i pur ammirevoli sforzi della Missione italiana all’ONU di portare il tema ai più alti livelli del dibattito internazionale hanno però lasciato delle questioni aperte. Perché l’Italia – che pure nel Mediterraneo, come giustamente disse Jean-Claude Juncker, è la nazione che ha “salvato l’onore dell’Europa” –, è però anche il Paese che ha negoziato in prima fila l’accordo per il controllo dei flussi migratori con la Libia. E l’iniziativa ha avuto, come innegabile risultato, non soltanto un sensibile calo degli sbarchi, ma anche l’imprigionamento dei migranti nell’inferno libico. Un nodo più volte sfiorato nel corso del mese di leadership italiana, ma sul quale il dibattito pare ancora irrimediabilmente inconcluso.
Ciò che fin qui è emerso dai lavori del Consiglio di Sicurezza, infatti, è che ancora non sussistono le condizioni di sicurezza necessarie per consentire a organizzazioni come UNHCR e OIM di intervenire direttamente e compiutamente nei centri di detenzione libici, e che tali condizioni si realizzeranno solo con lo scioglimento della crisi politica che imperversa in Libia. E se della roadmap politica si sta occupando l’Inviato Speciale di Guterres nel Paese Ghassan Salamé – con il pieno sostegno della comunità internazionale –, dai dibattiti tenuti in questo mese è parso più difficile prevedere le tempistiche per l’attuazione di quella umanitaria. Proprio a questo proposito, durante la sua visita alle Nazioni Unite, il 16 e 17 novembre scorsi, il ministro degli Esteri Angelino Alfano ha risposto con decisione alle dure critiche dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein, che aveva definito l’accordo tra Libia e UE “inhuman”. “Meno lezioni, più buone azioni”, ha tuonato il titolare della Farnesina, spronando “coloro che amano fare i professori” ad abbandonare cattedre e pulpiti ed agire. Quasi a voler incitare l’ONU e le sue agenzie – che l’Italia, ha ricordato, ha finanziato con fondi nazionali – a prendere in mano la situazione.
Nel suo ultimo intervento davanti al Consiglio di Sicurezza – quello, per l’appunto, promosso dalla Francia –, Filippo Grandi ha ribadito l’indefesso impegno delle agenzie ONU sul tema. “In Libia”, ha specificato, “circa 17mila rifugiati e migranti sono detenuti, e molti di più sono nelle mani di trafficanti, protetti da ben note milizie”. Nel frattempo, ha però puntualizzato, “l’UNHCR sta espletando le proprie funzioni insieme all’OIM. I progressi si vedono”, ha rivendicato, ammettendo come però le condizioni di sicurezza rimangano instabili e l’accesso umanitario ad alcuni “luoghi chiave” resti interdetto. Grandi ha inoltre rimarcato la necessità di potenziare tutte le vie legali di immigrazione, come le iniziative di resettlement recentemente portate avanti dall’UNHCR. Un intervento ampiamente condiviso da William Lacy Swing, che ha ribadito come il focus della riunione fosse sul “salvare vite umane”: “Non stiamo tentando di impedire agli africani di raggiungere l’Europa”, ma, ha sottolineato, si sta provando a distruggere le reti dei trafficanti di esseri umani.
Il quadro, insomma, non sembra essere più di tanto cambiato da quando Grandi aveva aperto, su iniziativa della Missione dell’ambasciatore Cardi, i lavori della presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza. Eppure, ha spiegato il rappresentante permanente della Francia all’ONU François Delattre, pur a pochi giorni dall’open debate sullo human trafficking organizzato dall’Italia la settimana scorsa, il nuovo meeting “non giunge di punto in bianco”. Perché, ha aggiunto, la riunione precedente è stata “un passo, ma non è di certo la fine della strada. Perciò”, ha affermato, “sulla base di quello che abbiamo fatto la scorsa settimana, ora dobbiamo andare più in profondità per porre fine a una simile tragedia e per trovare soluzioni a breve e a lungo termine per sbarazzarci di questa piaga”. L’Ambasciatore ha inoltre specificato: “Vogliamo tenere questo meeting, ma desideriamo anche che produca risultati tangibili per contrastare il traffico di esseri umani in Libia”.
Risultati tangibili che, durante il suo intervento, l’ambasciatore Cardi ha già rivendicato, di fatto, alla presidenza italiana: non da ultimo, citando la risoluzione approvata qualche giorno fa sempre in tema di contrasto allo human trafficking. Quali risultati “più concreti” si aspettava dunque di raggiungere la Francia? L’obiettivo, ha spiegato ancora Delattre, era quello di “ricorrere a ogni mezzo immaginabile e a tutte le possibilità dischiuse dalla legge, soprattutto quella internazionale”. E ha aggiunto: “Ciò significa rinforzare la cooperazione con le autorità libiche, e implica anche una più determinata battaglia contro l’impunità, anche attraverso la Corte Penale Internazionale”. Non solo: la Francia ha parlato anche della possibile imposizione di sanzioni “contro tutti coloro, individui o entità, che contribuiscono a questi atti barbarici”. D’altronde, non è certo la prima volta che Parigi si posiziona in prima fila, a livello politico e diplomatico, sul dossier libico. Senza bisogno di ricordare il suo ruolo chiave nell’intervento militare del 2011 – incoraggiato, secondo la vulgata, da imponenti interessi economici in loco –, non bisogna andare troppo indietro nel tempo per ricordare la storica stretta di mano tra il presidente del Governo di Unità Nazionale riconosciuto dall’ONU Fayez al Serraj e l’uomo forte della Cirenaica, nonché espressione militare di Tobruk, il generale Khalifa Haftar. Una stretta di mano orgogliosamente patrocinata dal presidente francese Emmanuel Macron, letta dalla stampa italiana come, a maggior ragione dopo il “tradimento” di Fincantieri, il tentativo (riuscito) francese di “scippare” la leadership all’Italia sul dossier libico.
Memori, almeno, di questo precedente, ci si potrebbe domandare come poter interpretare l’ultima iniziativa francese. Iniziativa, intendiamoci, apprezzabilissima, visto che ogni tentativo di accendere i riflettori sull’abuso di diritti umani sui migranti in Libia, tema tanto scomodo per l’Unione Europea, non può che rappresentare uno sviluppo positivo. Quello che possiamo dire è che, dal canto suo, l’Italia ha voluto rimarcare con grande chiarezza il suo impegno in prima linea per facilitare il lavoro delle agenzie ONU sul campo: “L’Italia è lieta che i suoi sforzi, anche grazie all’impegno dell’Ambasciatore italiano a Tripoli, siano in grado di facilitare le attività dell’UNHCR in Libia a difesa dei migranti, delle categorie vulnerabili e nel definire i termini della sua presenza nel Paese”, ha detto Cardi durante il suo intervento. “Le procedure per il reinsediamento dei migranti e delle categorie vulnerabili possono essere accelerate in coordinamento con gli uffici dedicati a Tripoli, gestiti dalle autorità locali, al fine di assicurare più alti standard di assistenza umanitaria e di rispetto dei diritti umani”. Tutti concetti fortemente ribaditi in occasione del successivo stakeout con la stampa, in cui l’Ambasciatore ha rimarcato ancora una volta il forte impegno dell’Italia nell’assicurare all’UNHCR e alle organizzazioni umanitarie libero e sicuro accesso in Libia per la difesa dei diritti umani. Sull’ipotesi sanzioni, invece, Cardi si è mostrato prudente: “Si vedrà”, ha detto, puntualizzando come la questione debba essere attentamente esaminata dalla preposta Commissione e come, per ora, non ci sia ancora nulla di concreto all’orizzonte.
Nel contesto di quello che potrebbe forse leggersi come un tentativo della Francia di porsi come prima promotrice di una linea più dura e decisiva sulla difesa dei diritti umani, il messaggio italiano è insomma chiaro: il Belpaese è e resta in prima linea fedele alla causa. La posta in gioco, in effetti, è alta. Soprattutto perché il rischio è che nella comunità internazionale cominci ad aleggiare il dubbio che Roma, nota per aver salvato l’onore dell’Europa nel Mediterraneo, quello stesso onore stia rischiando di perderlo in Libia. Una notazione, però, è d’obbligo: perché, se il rimprovero giunge da chi si mostra particolarmente solerte soprattutto quando c’è da sbarrare il confine di Ventimiglia e rispedire in Italia tutti i migranti che tentano di passare oltralpe (certo, Dublino II lo vieta…), diviene forse lecita la domanda sulla stabilità del pulpito dal quale, come si dice, proviene la predica.