Foreign fighters: una minaccia globale che non presenta soluzioni facili. E che, paradossalmente, tende a rafforzarsi proprio quando i gruppi terroristici subiscono consistenti sconfitte militari sul campo. Ecco perché l’argomento trattato dal Consiglio di Sicurezza ONU, sotto la presidenza italiana dell’ambasciatore Sebastiano Cardi, è di assoluta priorità. A maggior ragione oggi che, rispetto a quando, nel 2014, si posero le basi di un impegno concreto della comunità internazionale in tale direzione con la risoluzione 2178, Daesh è stato scacciato da circa il 97% del territorio che, tra Siria, Iraq e Libia, inizialmente occupava. È insomma il periodo più fertile perché i combattenti che hanno aderito al folle verbo dell’ISIL facciano ritorno nei propri Paesi, o, piuttosto, si spostino in altri. Compresi gli Stati europei.
Non è un caso che tutti i relatori invitati a esporre le proprie considerazioni al Consiglio – il Sottosegretario Generale dell’UN Office of Counter-Terrorism, Vladimir Voronkov, Michèl Coninsx, Executiv Director of Counter-Terrorism Executive Directorate, e l’ambasciatore Kairat Umarov, Rappresentante Permanente del Kazakistan, nonché capo della Commissione del Consiglio di Sicurezza su ISIL e Al Qaida – abbiano rimarcato come il dossier sui foreign fighters riguardi da vicino tutti gli Stati membri. Nonostante qualcuno di essi sia più direttamente interessato dal fenomeno di altri: in primis, ha informato Voronkov, Libia, Yemen e Afghanistan. Paesi che la comunità internazionale, ha sottolineato, deve sostenere nella propria capacity building e nello sviluppo di progetti tecnici ad hoc. Anche perché, come ha rilevato opportunamente l’ambasciatore Umarov, se dal punto di vista del controllo del territorio l’ISIL sta evidentemente perdendo terreno, la sua propaganda sul web non cessa di seminare seguaci. Inoltre, ha spiegato Voronkov, molti foreign fighters sono ben addestrati per compiere attacchi terroristici e per reclutare nuovi adepti. Per affrontare questa minaccia, la cooperazione tra gli Stati membri, la condivisione delle informazioni ad esempio nel campo del controllo delle frontiere, il dialogo tra le intelligence e il sostegno all’operato di tutti gli organismi delle Nazioni Unite impegnati a contrastare il fenomeno sono tutti elementi fondamentali per una strategia che voglia proporsi come comprensiva.
“Negli ultimi due anni, il numero di foreign fighters che hanno fatto ritorno nei propri Paesi o hanno raggiunto Paesi terzi ha subito un’accelerazione, come conseguenza delle sconfitte territoriali subite dall’Isis in Iraq, Siria e Libia”, ha spiegato Coninsx, dopo aver ricordato, all’inizio del suo intervento, le vittime del recente attacco terroristico in Egitto e dei tanti altri che lo hanno preceduto in ogni parte del mondo. Preoccupante, ha fatto notare, il crescente numero di attacchi condotti da “non terroristi”, ispirati da ideologie estremiste diffuse e veicolate sui media, e poi sistematicamente rivendicati dall’ISIL. Attacchi che, anche senza la necessità di utilizzare mezzi costosi e tecnologicamente avanzati, hanno spesso “conseguenze devastanti”, condotti da persone che spesso, secondo quanto hanno messo in luce le indagini, ricevono sostegno anche finanziario attraverso la rete. Dalla risoluzione del 2014, ha osservato Coninsx, “molto è stato fatto, ma non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo”. Le sfide sono tante, e molte di queste riguardano proprio il ruolo delle nuove tecnologie, ma anche la “creazione di una adeguata cornice legislativa”.
Il tema, insomma, è di quelli caldi. Anche perché, secondo le stime del Consiglio di Sicurezza, organizzazioni terroristiche come Al-Qaida, Daesh e relativi gruppi associati hanno attratto almeno 30mila foreign fighters da oltre 100 Stati. Molti giovani, imbevuti di propaganda, sono partiti verso aree di conflitto per prendere parte ai combattimenti. E la loro partenza ha avuto un impatto profondamente destabilizzante per le loro comunità di origine e, soprattutto, per le loro famiglie. Per invogliarli ad aderire alla causa, l’ISIL ha spesso fatto leva sulla speranza di “facili” (per così dire) guadagni, ma anche su sentimenti di confusione e alienazione, su situazioni di marginalizzazione sociale, discriminazione, su una generale mancanza di opportunità e prospettive. Un fenomeno che, peraltro, riguarda anche le donne: in Nigeria, ad esempio, il numero di attacchi suicidi perpetrati da donne adulte e ragazze è fortemente aumentato nel 2015, e Al Shabaab ha pubblicamente incoraggiato i genitori a mandare le proprie figlie non sposate a combattere gli “infedeli”.
L’impressione, insomma, è che, osservando l’evoluzione del fenomeno, nessuno può dirsi al sicuro. Un’impressione drammatica, che ormai conosciamo bene perché domina all’indomani di ogni strage, ogni attacco. E se il rischio zero non esiste né esisterà mai, ora che l’ISIS sembra destinato a perdere completamente la propria base territoriale, il fenomeno del ritorno e dello spostamento dei combattenti accresce il livello di pericolo. Ed è proprio in questo quadro che gli Stati Uniti hanno proposto la stesura di una nuova risoluzione, più aggiornata di quella del 2014, che tracci buone pratiche, strategie e linee guida per affrontare questa minaccia.
Una proposta accolta con entusiasmo dal Rappresentante Permanente dell’Italia all’ONU Sebastiano Cardi, che ha ricordato come l’Italia, dopo l’approvazione della risoluzione ONU tre anni fa, ha modificato il proprio codice penale per criminalizzare la condotta di ogni individuo che supporti, finanzi e promuova viaggi transnazionali finalizzati ad attività terroristiche. E nonostante l’efficacia della risoluzione 2178, ha ammesso, “la minaccia globale posta dal terrorismo continua ad evolversi e diversificarsi”. “La comunità internazionale sta ancora cercando un modo efficace per affrontare opportunamente la sfida”, ha ammesso Cardi. “Il nostro impegno nell’antiterrorismo deve essere ampliato in lungo e in largo, con particolare attenzione al Sahel, dove l’instabilità contribuisce alla diffusione della violenza e del terrorismo”. Quella dei foreign fighters, insomma, è una sfida che vede l’Italia in prima linea, anche perché la sua posizione geografica di ponte verso l’Europa e la sua vicinanza strategica con la Libia la rende particolarmente sensibile al fenomeno. Un fenomeno che, senza quella cooperazione e quel dialogo costante tra Stati e intelligence che spesso, in Europa, abbiamo visto mancare del tutto o in parte, non sarà mai veramente contrastabile.
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