Mentre la metà del mese di presidenza italiana del Consiglio di Sicurezza ONU si avvicina, lo Stivale, la sua cultura e il suo inconfondibile stile di vita sono stati al centro della conferenza “Italics as a Global Commonwealth”, tenutasi al Palazzo di Vetro il 13 novembre. La prestigiosa cornice delle Nazioni Unite ha dunque ospitato Piero Bassetti, autore del volume Lets’s Wake up Italics! Manifesto for a Glocal Future, nonché presidente di Globus et Locus, Associazione di Istituzioni che si prefigge di analizzare il rapporto tra “globale” e “locale”. Sono queste, in effetti, le due dimensioni – la cui cresi ha dato origine al termine “glocale” – al centro dell’attenzione di tutti i relatori, che ne hanno approfondito caratteristiche, conseguenze e legami reciproci. Con un occhio particolare, naturalmente, alla comunità di “Italics” su cui si concentrano gli studi di Bassetti. Una comunità che comprende 250 milioni di persone, disperse in 5 diversi Continenti, non necessariamente italiani d’origine o italofoni per linguaggio. Perché gli “Italics”, per Bassetti, sono coloro che possono vantare un legame, anche solo indiretto, con l’Italia, la sua cultura, il suo patrimonio e la sua “identità”. Coloro che si ispirano, dal punto di vista poltico, sociale, culturale o economico, a quell’inconfondibile “Italian way of life” che è, in ultima istanza, quello stile di vita per cui il Belpaese è noto e ammirato in tutto il mondo.
La conferenza, introdotta dal Rappresentante Permanente dell’Italia all’ONU Sebastiano Cardi – che ha dovuto lasciare l’evento dopo averlo introdotto a causa dei suoi improrogabili impegni al Consiglio di Sicurezza – , è stata inaugurata anche dal messaggio di benvenuto firmato dal presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, che ha esaltato l’illustre passato italiano, ma anche il suo presente, le sue ricche testimonianze nella scienza, nelle arti, nella letteratura, nella ricerca, nell’imprenditoria, nel cibo e nell’aspirazione di tante persone sparse in tutto il mondo a vivere “all’italiana”. In questo senso, ha osservato Mattarella, si può far riferimento al concetto di “commonwealth”: spogliandolo, dunque, della sua pretesa egemonica, ma collegandolo con l’offerta globale dell’italianità intesa come ingegno e canone di buona vita. Una lettera letta in italiano – e parallelamente tradotta in inglese dagli interpreti – dall’ambasciatore Cardi, che ha poi ricordato quanto l’Italia possa essere considerata un vero e proprio ponte tra differenti posizioni, diverse visioni del mondo, e le varie civiltà che abitano il Mediterraneo.
E’ questa l’”italicità” di Piero Bassetti, che affonda le sue radici nella nuova dimensione “glocale”, in cui globalità e località interagiscono costantemente, e in cui si afferma una nuova idea di spazio, tempo, mobilità e cittadinanza. Una dimensione che dovrebbe essere fondata sul rispetto del patrimonio artistico, la tolleranza e un’equa distribuzione di ricchezza, ma anche di educazione, sussistenza, diritti. E’ proprio in tale scenario che Nassir Al-Nasser, Alto Rappresentante per l’Alliance of Civilization delle Nazioni Unite, ha ricordato la celebre massima di Francis Ford Coppola, “We were raised in an Italian-American household, although we didn’t speak Italian in the house. We were very proud of being Italian, and had Italian music, ate Italian food”: ed eccoli qui gli “Italics” di Bassetti, nelle parole del famosissimo regista e sceneggiatore statunitense. Secondo Davide Cadeddu, direttore della rivista Glocalism e docente all’Università di Milano, la stessa identità italiana è ormai mista, largamente riformulata nei secoli, ma, nonostante tutto, si è dimostrata capace di preservare la propria inconfondibile fisionomia. Protagonista assoluta di questo panorama, dunque, la “civilizzazione”, intesa come espressione culturale della società, capace di influire ben oltre la dimensione strettamente statale. In questo senso, gli “italici” non sono tipi di identità puramente etnici o linguistici, ma sono accomunati da una “identità culturale essenziale”.

Identità culturale che, negli States, venne trapiantata dai tanti esuli e rifugiati politici che, come ha spiegato Barbara Faedda, Associate Director dell’Italian Accademy for Advanced Studies (Columbia Univerity), in America trovarono la libertà necessaria per sviluppare il proprio background culturale. Un background che appassionò gli autoctoni, sia dal punto di vista politico che da quello prettamente culturale: si pensi ai legami con l’Italia di Benjamin Franklin, all’influsso di autori italiani quali Guicciardini e Machiavelli, fino ad arrivare a Enrico Fermi, premio Nobel emigrato negli Usa che lavorò al Manhattan Project durante la Seconda Guerra Mondiale. Altro simbolo dell’Italia polifonica diventato emblema inconfondibile anche oltre i suoi confini, la commedia dell’arte, rappresentata magistralmente anche dall’ultimo Nobel per la Letteratura italiano Dario Fo: non a caso, il teatro della commedia italiana si trova oggi a Parigi, ha ricordato Fabio Finotti, dell’Università di Pennsylvania e di Trieste. Da considerare, anche, il “business side”, sintetizzato da Fernando Napolitano, presidente e CEO dell’Italian Business&Investement Initiative, che ha rimarcato come gli italiani, all’interno del mondo globalizzato, siano in grado di fare del buon business, ma come, d’altra parte, sia sempre più fondamentale che l’Italia sappia rappresentarsi come un Paese competitivo sull’high-tech. Napolitano ha anche sottolineato che i lati “oscuri” della globalizzazione sono alla radice della progressiva tendenza al populismo che si registra in Europa ma anche negli Stati Uniti.
D’altro canto, non è neppure facile essere italiani, ha osservato il giornalista Mario Platero. Perché, indissolubilmente legata all’Italia, esiste un’immagine che “spesso non corrisponde alla vera italianità”. Lo stesso concetto di “fuga dei cervelli”, a suo avviso, viene considerato in maniera troppo negativa perché “dobbiamo essere orgogliosi”, ha detto, del fatto che quei “brains” portino l’italicità nel contesto della globalizzazione, tenendo alta la considerazione degli italiani nel mondo. Immagine che non può non insignirsi dell’importanza del settore del luxury nazionale, ha poi osservato Andrea Illy, Presidente della Fondazione Altagamma, un settore a suo avviso legato a stretto giro alla forte tradizione di cultura e creatività italiana, che non ha perso di competitività, contrariamente a quanto avvenuto al settore industriale.
Ma tale dibattito sul “glocalismo” e, in generale, sul rapporto tra globalità e localismo, va ben oltre l’“italicità” in sé e per sé. Perché viviamo nell’epoca delle più imponenti migrazioni dalla Seconda Guerra Mondiale, ma anche in un’era in cui, accanto al globalismo finora dominante negli ultimi decenni, si sta affermando un nuovo tipo di sovranismo, talvolta di natura populistica, teso al recupero dei valori e delle identità nazionali contro i trend uniformanti tipici della globalizzazione, contro i grandi spostamenti di popolazione e contro una certa idea di confine sempre più “poroso” e superabile. Una tendenza incarnata, in ultima istanza, dall’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Ed è proprio su questo tema che si sono confrontati diversi studiosi ed esperti del settore. Non solo Ignacio Olmos, Executive Director dell’Istituto Cervantes, James Gannon, Executive Director del Japan Center for International Exchange e Pradeep Kashyap, vicepresidente della American India Foundation – che hanno parlato, rispettivamente, delle esperienze delle comunità ispanica, giapponese e indiana a New York e negli Usa -. Saskia Sassen, docente di Sociologia alla Columbia University, ha illustrato il “lato oscuro” della globalizzazione: quello che riguarda, cioè, il dominio della finanza a livello mondiale, settore estremamente astratto, ricco ma che, paradossalmente, non riguarda fisicamente il “denaro”. In questo scenario, ha spiegato, sorgono nuove tendenze economiche, particolarmente problematiche: come il fenomeno del landgrabbing, spesso l’altra faccia della medaglia dello “sviluppo”, che provoca nuovi flussi di migranti, invisibili agli occhi della legge. Anche Akeel Bilgrami, Professore di Filosofia alla Columbia University, ha sottolineato il legame perverso che può instaurarsi tra sofferenze locali e speculazione globale, circostanza che può dare origine alla protesta populista. Eyla Benhabib ha invece fatto riferimento alla frase recentemente pronunciata da Theresa May: “Se sei cittadino del mondo, non sei cittadino di nulla”. Una frase interpretata superficialmente dalla stampa mondiale come la svolta a tutta destra della leader britannica, ma che in realtà – ha affermato – è espressione di un problema particolarmente radicato in Occidente, e che riguarda la possibilità stessa del concetto di cosmopolitismo: essere cittadini da un lato – e dunque legati a un concetto che riguarda l’identità e l’appartenenza -, ma esserlo del mondo, se non dell’universo dall’altro. Una tradizione fiorita nel mondo greco, con Socrate che si definiva non un cittadino di Atene, ma del mondo, e che culminò con le riflessioni dell’imperatore romano Marco Aurelio.
È ancora possibile, dunque, essere cosmopoliti, oggi? Sì, almeno per Piero Bassetti. Che ha individuato nella categoria degli “Italics” una vera e propria antonomasia del mondo in cui viviamo, che ha una pluralità di identità, e dove ognuno di noi appartiene a più di una dimensione comunitaria, non soltanto sotto il punto di vista etnico, nazionale o religioso, ma anche in termini di cultura, gusto, passioni, interessi. In questo mondo, ha scritto, “il modo di vivere italico è un vantaggio”. Di cui, per una volta, andare fieri.
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