Come promesso alla vigilia dell’inizio leadership di Roma, la Libia torna a essere assoluta protagonista al Consiglio di Sicurezza ONU guidato dalla Missione dell’ambasciatore Sebastiano Cardi. Il briefing del Procuratore Capo della Corte Penale Internazionale (ICC), Fatou Bensouda, ha fatto luce sulla preoccupante situazione nel Paese, che resta drammaticamente interessato da violenza, insicurezza, crimini contro l’umanità, violazioni e abusi dei diritti umani, violenze sessuali usate dalle parti come armi di guerra, torture e detenzioni illegali. Una situazione che non è cambiata sostanzialmente da quando, lo scorso maggio, Bensouda ha fatto il punto della situazione al Palazzo di Vetro, a dimostrazione di quanto il Paese nordafricano che lo Stivale guarda al di là del mare resti una polveriera ancora oggi pronta ad esplodere. Il tutto, a 6 anni dalla rivoluzione che avrebbe dovuto riportare pace e democrazia.
Al contrario, è oggi più chiaro che mai che la situazione del Paese continua a rimanere una minaccia per la sicurezza e la stabilità globale, oltre che un autentico inferno per i civili e per chi, fuggendo da fame e povertà, si trova a transitare sul territorio. Il Procuratore non ha nascosto gli abusi subiti dai migranti intrappolati nell’inferno libico, spesso vittime di detenzioni illegali e torture. Una questione sollevata, in mezzo alle tante altre affrontate, anche dall’Alto Commissario UNHCR Filippo Grandi, ospitato al Palazzo di Vetro il 2 novembre scorso, in occasione della prima sessione del Consiglio di Sicurezza guidata dall’Italia. E proprio Roma, in ultima istanza, sembra essere la principale interlocutrice sulla questione, non solo per il suo ruolo di primo piano nella gestione della crisi libica, ma anche perché l’accordo promosso mesi fa dal ministro dell’Interno Marco Minniti con il governo di Tripoli, oltre ad aver messo un freno agli sbarchi, ha lasciato drammaticamente aperta la questione dei diritti umani dei migranti intrappolati nel Paese nordafricano.
A questo proposito, durante il Consiglio di Sicurezza alcuni Stati membri – la Svezia in prima fila – hanno incitato la comunità internazionale a lavorare per garantire pieno accesso alle organizzazioni umanitarie, e chiesto all’ICC – che si occupa di vigilare sulle atrocità commesse in Libia da quando, nel 2011, il Consiglio di Sicurezza gliene ha assegnato il mandato – la possibilità che il suo impegno si focalizzi anche sui crimini connessi con il traffico di esseri umani. Lo stesso ambasciatore Cardi, in proposito, ha sottolineato come l’Italia resti particolarmente preoccupata sulla situazione dei rifugiati, e come lo scioglimento del nodo migranti passi innanzitutto dalla soluzione politica della crisi. L’ambasciatore libico Elmahdi S. Elmajerbi ha voluto invece dare risalto agli sforzi fatti da Tripoli nel contrasto del traffico di esseri umani – a suo avviso poco riconosciuti a livello internazionale – e ha rimarcato come sia proprio la presenza di queste reti criminali nel Paesi di partenza e di transito dei migranti la prima origine dei “crimini commessi nel mio Paese”. Inoltre, Elmajerbi ha spiegato che la problematica situazione umanitaria di quelli che ha definito “migranti illegali” in Libia è anche la diretta conseguenza della scarsa sicurezza nel Paese.
Se dunque il tema dei migranti è stato di primo piano, altrettanto può dirsi delle indagini e delle iniziative della Corte in relazione ai crimini di guerra perpetrati nel corso della Rivoluzione che ha deposto Mu’ammar Gheddafi, ma anche in seguito. E ascoltando la dettagliata relazione di Bensouda, l’impressione che se ne ricava è che, anche dopo la morte del dittatore, legittimamente accusato dalla comunità internazionale di una scarsissima attenzione per il rispetto dei diritti umani, ben poco sia in realtà cambiato. A cambiare, semmai, è stato il contesto: oggi, i crimini commessi non sono più imputabili alla presenza di un regime, ma a uno stato di perpetua insicurezza e sanguinosa guerra civile che oppone sul territorio milizie disposte a tutto pur di accaparrarsi il potere. Senza contare la preoccupante presenza di Daesh sul territorio del Paese.
In tale contesto, Bensouda ha ripreso il filo del discorso laddove lo aveva lasciato lo scorso maggio, relazionando sulla persecuzione dei crimini commessi in particolare dall’Esercito Nazionale Libico (LNA) di Khalifa Haftar e dallo Shura Council of Benghazi Revolutionaries, gruppo militare composto da milizie islamiste e jihadiste, tra cui Ansar al-Sharia. Ha citato i bombardamenti avvenuti a ottobre sulla città di Derna, nell’Est della Libia, sotto assedio delle forze del generale Haftar, che hanno causato almeno 15 morti, tra cui 8 bambini. Inoltre, è tornata sul caso di Mahmoud Mustafa Busayf al-Werfalli, miliziano del LNA, contro il quale l’ICC lo scorso agosto ha spiccato un mandato di arresto per crimini di guerra e brutali esecuzioni commesse. A tal proposito, il Procuratore ha pubblicamente incitato Haftar – che ha difeso a spada tratta e ringraziato il suo soldato – a collaborare con la Corte dell’Aja.
Una vicenda che ad agosto il collaboratore del Washington Post Mark Kersten aveva ripercorso criticamente, rilevando peraltro come, specialmente sotto la presidenza di Bensouda, la Corte stesse a suo avviso agendo in maniera, per così dire, sempre più “strategica”: non tanto, cioè, perseguendo i maggiori criminali, quanto quelli la cui consegna venisse considerata relativamente più probabile. Da quando la Libia è diventata materia di pertinenza dell’ICC, aveva rilevato infatti il giornalista, nessuno dei principali target della Corte dell’Ajia, tra cui lo stesso figlio del olonnello Gheddafi Saif al-Islam, è mai stato portato di fronte al Tribunale. Kersten aveva inoltre notato come al-Wefalli, raggiunto segretamente dal mandato di cattura il primo agosto e subito dopo arrestato, fosse un target “particolare” per l’ICC, più uso a perseguire i sostenitori di Gheddafi piuttosto che coloro che, come lui, gli combatterono contro. Tuttavia, si era parzialmente risposto, i crimini contestati al miliziano nulla avevano a che fare con il 2011, ma risalgono al 2016-2017. Proprio a questo proposito, nella riunione del Consiglio di Sicurezza la Russia ha duramente criticato la Corte, notando come “negli ultimi sei anni neppure un’inchiesta è stata aperta sui presunti crimini dei ribelli”. Il Rappresentante russo ha poi affilato i coltelli accusando il Procuratore di “evitare di considerare le perdite di civili dovute ai bombardamenti Nato”.

Buone notizie giungono invece in merito alla collaborazione con l’inviato speciale ONU in Libia Ghassan Salamé, descritta dal Procuratore come proficua. Circostanza di cui si è rallegrato pubblicamente lo stesso ambasciatore Cardi, ben consapevole degli ostacoli che possono insorgere qualora le iniziative dell’Aja da una parte e di New York dall’altra entrino in conflitto, specialmente in contesti di crisi già di per sé problematici quali la Siria o la stessa Libia. Eppure, tra le questioni emerse durante il briefing, ad aver prevalso sono certamente le criticità: criticità in relazione alla persistenza di violenze, abusi, crimini e totale incertezza legale e giuridica; criticità in relazione alla totale insicurezza del territorio, che non consente alle autorità di assicurare in tempi brevi i colpevoli alla giustizia e di garantire il rispetto della dignità umana; criticità sotto il profilo dei diritti umani dei migranti, che, nonostante l’impegno che ONU e UNHCR hanno spesso rivendicato, restano ampiamente bistrattati. Tutto ciò, ormai, a 6 anni da quando la statua del colonnello Mu’ammar Gheddafi venne tirata giù dalla folla festante, che si illudeva che la storia, da quel giorno in poi, avrebbe assicurato alla Libia un futuro migliore.
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