Sulla questione libica sta succedendo di tutto, ma ancora una volta non è cambiato nulla. Il futuro della Libia continua a preoccupare le Nazioni Unite, dove due riunioni del Consiglio di Sicurezza in sette giorni e una risoluzione (la numero 2357) votata lunedì 12, non possono essere sufficienti a sbrogliare il bandolo di una matassa che appare sempre più aggrovigliata. La Libia è ancora oggi un Paese instabile con un governo debole e vittima di un risiko che, se mal giocato dalle potenze del mondo, potrebbe far esplodere una situazione già in bilico, dove i naufragi sono all’ordine del giorno (l’ultimo il 24 maggio al largo di Zuara).
Da un lato Fayez al-Sarraj, nominato capo del governo grazie a un accordo tra alcune fazioni libiche nel dicembre del 2015 e riconosciuto dalla comunità internazionale, continua a “controllare” da Tripoli la parte occidentale del Paese. Dall’altra Khalīfa Belqāsim Ḥaftar, il generale finanziato dall’Egitto e sostenuto dalla Russia: sotto il suo controllo c’è la parte orientale della Libia e la sua base è a Tobruk. Nel mezzo una corrente di interessi intrecciati, che vede protagonisti anche alcuni di quei Paesi che nella mattinata di lunedì 12 hanno votato all’unanimità la risoluzione dell’ONU. Un documento reso possibile dalla mediazione del Regno Unito e che si pone l’obiettivo di stabilizzare la situazione in Libia attraverso l’embargo delle armi, dopo le recenti violazioni nei confronti di una prima risoluzione, votata dal Consiglio di Sicurezza mesi fa.
“Il Mediterraneo, specialmente lungo le coste della Libia, sta affrontando molteplici sfide: il traffico di esseri umani e il contrabbando di armi, così come il contrabbando di petrolio e di altri prodotti. Tutto questo alimenta la volubilità della situazione nel Paese e può peggiorare la durata e la complessità della crisi in Libia – ha detto nella sua dichiarazione di voto il sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale Vincenzo Amendola, durante il Consiglio di Sicurezza di lunedì 12. La stabilizzazione della Libia è il miglior modo per affrontare questo problema: l’Italia è convinta che questa strategia possa funzionare attraverso il supporto del Presidente del Consiglio (al-Sarraj, ndr) e della struttura istituzionale resa possibile dal Libyan Political Agreement (LPA)”.
Ed è proprio l’Italia, infatti, a rischiare di subire i danni collaterali più forti dal risiko altrui. È dalla fine del 2015 che gli esecutivi italiani stanno sostenendo il governo di unità nazionale libico presieduto da al-Sarraj, con l’obiettivo di garantire la stabilità nell’intera regione, una stabilità perduta dopo la primavera araba e la morte del generale Gheddafi. L’Italia è ovviamente considerata uno degli attori più importanti sulla questione libica e non è un caso che a presenziare al voto sulla risoluzione 2357 ci fosse il sottosegretario Amendola, unico Paese nel Consiglio dei 15 a presentarsi con un membro del suo governo e non con l’ambasciatore ONU. Un segnale politico importante, ma insufficiente a migliorare la situazione.
Anche perché il sostegno verso al-Sarraj, oggi, è tutto tranne che unanime. Se Russia ed Egitto si sono posizionate in modo esplicito dalla parte del generale Haftar, gli Stati Uniti d’America continuano a stare alla finestra come qualche mese fa: nell’incontro bilaterale di aprile tra il presidente USA Donald Trump e il premier italiano Paolo Gentiloni, Trump aveva gettato il sasso facendo credere di sostenere l’Italia sul fronte libico, salvo poi ritirare la mano e dichiarare di non vedere “un ruolo degli Stati Uniti in Libia: siamo troppo impegnati sugli altri fronti”. E non è finita qui. Perché da un lato Regno Unito e Francia supportano sì il governo al-Sarraj (come si evince dalle parole degli ambasciatori sulla risoluzione 2357), ma continuano a sostenerlo in modo meno convinto dell’Italia. Mentre dall’altro, la situazione libica ha finito per spezzare gli equilibri anche nel medio-oriente. Gli Emirati Arabi infatti, che di recente hanno isolato con l’Arabia Saudita il Qatar, incolpandolo di sostenere gruppi terroristici in Libia, sono al centro di un recente rapporto dell’UNSC (United Nations Sanctions Committee). Quasi 300 pagine “silenziose” in cui la commissione delle Nazioni Unite spiega, come riporta AlJazeera.com, che “gli Emirati Arabi stiano fornendo supporto diretto e indiretto al Libyan National Army” di cui il generale Haftar è a capo, e che ha permesso al movimento alternativo al governo Sarraj di rafforzare la propria presenza in Libia.
Sullo sfondo di questo campo di battaglia in cui tutti lottano senza ammetterlo e dove l’instabilità in Libia sembra convenire a molti Paesi più della stabilità, l’ONU si presenta alla sfida per la pace mostrandosi debole. Nonostante la risoluzione approvata sull’embargo delle armi, infatti, le Nazioni Unite sono ancora oggi alla ricerca di un nuovo inviato speciale in Libia: il mandato di Martin Kobler scadrà entro fine giugno ma è ancora oscura l’identità di chi dovrà sostituirlo. E nonostante Kobler evidenzi la necessità di “non compromettere i principi basilari che ci uniscono e ci rendono umani“, la partita in Libia continua ad apparire sempre meno umana: con Egitto, Russia ed Emirati da una parte, Italia con il debole riparo dell’ombrello ONU, dall’altra e gli Stati Uniti nel mezzo, a rendere ancora più incerto un contesto fatto di strane alleanze e di interessi intrecciati.