Al Council on Foreign Relations di New York l’aspirante candidata alla presidenza, Hillary Clinton, ha tenuto la scorsa settimana un discorso sulla sicurezza nazionale e l’Isis, sfoderando la sua intelligenza tattica e tecnica in ambito di politica estera. L’Isis, dichiara, va battuto su tre fronti: quello territoriale, quello propagandistico e virtuale e quello ideologico. Per evitare che un conflitto regionale si trasformi in una proxy war, l'"old fashioned diplomacy" deve tornare in auge.
La linea dettata dalla candidata repubblicana per combattere l’Isis quindi si struttura lungo tre assi portanti: sconfiggere l’organizzazione terroristica a livello territoriale tramite un sistema di alleanze globali, bloccare il flusso di finanziamenti sfruttati per diffondere la propaganda, rafforzare la sicurezza di tutti gli stati attraverso la coordinazione delle intelligence nazionali. Il tutto senza mai perdere di vista i nodi complessi di questo conflitto, rappresentati da quei paesi che dichiarano la propria alleanza per raggiungere l’impresa, ma che di fatto fanno poco o nulla per contribuire a risolvere il problema. Clinton ha dichiarato di non farsi illusioni sul buon risultato della lotta: “I risvolti, le conseguenze di una guerra immediata, urgente, non sono facili da prevedere”. Insomma, il trionfo della realpolitik.
Il primo pilastro della campagna anti-Isis è la riconquista dei territori occupati dall’organizzazione. Secondo la Clinton “dobbiamo intensificare i nostri sforzi, impiegare più armi, più aeri e dispiegare più intelligence, coadiuvata da speaker arabi che conoscano a fondo la cultura araba e che possano cooperare con i servizi regionali. Dobbiamo raggiungere quel grado di penetrazione che abbiamo raggiunto in passato con al-Qaeda. Gli air strike sono necessari, ma non sufficienti e noi dovremmo essere onesti nel dire che se vogliamo avere successo, gli attacchi aerei devono essere combinati con un intervento di terra per sottrarre all’Isis i territori conquistati”. L’ex Segretario di Stato ha però sconfessato l’ipotesi di un intervento di terra americano, sposando la linea di Obama. “Quello che abbiamo imparato da 15 anni di guerre in Afghanistan e in Iraq è che le nazioni e le comunità locali devono difendere e prendersi cura delle loro stesse comunità. Noi possiamo aiutarli e dovremmo, ma non possiamo sostituirci a loro”. La Clinton ha fatto quindi appello all’esigenza di formare una coalizione internazionale contro la lotta al terrorismo, affermando poco dopo che “il Congresso dovrebbe autorizzare l’uso della forza militare perché questo manderebbe un segnale forte agli alleati che gli Stati Uniti sono coinvolti in questa lotta”.
Se da una parte la possibilità dell’uso della forza sembra essere accantonata, dall’altra rimane chiaro il ruolo di leader cui gli Stati Uniti aspirano nella lotta al terrorismo. L’addestramento dei ribelli “moderati” dunque si intensificherà, invocando nel frattempo la creazione di una no-fly zone “per fermare Assad e i bombardamenti sui civili” e in cui possano confluire i cittadini siriani.
Se dalle parole traspare la leadership cui puntano gli Stati Uniti, allo stesso tempo la Clinton ha fatto appello all’aiuto, pur con le dovute precauzioni, della Russia, dell’Iran, della Turchia e dell’Arabia Saudita, nella risoluzione del conflitto. La candidata, infatti, non ha nascosto gli interessi contrastanti delle diverse parti in campo. “La Russia e l’Iran devono capire che continuare ad appoggiare un violento dittatore non porterà stabilità. Attualmente penso che il Presidente Putin stia peggiorando la situazione. Per essere chiari, c’è un importante ruolo cui la Russia può ambire per aiutare a risolvere il conflitto in Siria e noi abbiamo chiarito la volontà di lavorare con loro. Non c’è alternativa a una soluzione politica che permetta ai siriani di fermare le mire di Assad”.
Gli Stati Uniti ribadiscono dunque la loro posizione anti-Assad, aprendo al contempo a una possibile alleanza con la Russia. Da mesi si discute sulla fattibilità di questa alleanza. Nel corso del suo discorso all’Assemblea Generale, Putin ha supposto la creazione “di un’alleanza russo-americana contro il nemico comune, come al tempo dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale”. La Russia ha dunque cominciato i bombardamenti il 30 settembre ma, al contempo, né Obama né Putin hanno fatto un passo indietro nelle loro rispettive pretese, perlomeno fino agli attacchi di Parigi.
Secondo Eliot Higgins, il cittadino inglese divenuto celebre per aver usato strumenti open source e social media per investigare la guerra civile siriana lavorando da casa, le bombe sganciate dalla Russia nelle prime settimane di ottobre non hanno fatto altro che mettere in difficoltà l’opposizione “moderata” dei siriani. Higgins, come aveva già fatto in passato per risolvere la controversia della caduta dell’aereo della Malaysia Airlines nel giugno 2014, ha usato sistemi di geolocalizzazione e immagini satellitari per indagare sulle reali ambizioni russe. Ha così scoperto, per esempio, che le dichiarazioni russe di aver bombardato Raqqa erano infondate, visto che da un’attenta analisi è emerso che le stesse bombe sono cadute a 200km da Raqqa. Tuttavia, in seguito agli attacchi di Parigi e all’abbattimento di un volo con passeggeri russi sul Sinai, le intenzioni e i piani di Putin sembrano essere cambiati. E per questo le speranze della Clinton di collaborare con la Russia.
La Clinton ha affrontato realisticamente anche il discorso sull’alleanza con la Turchia e l’Arabia Saudita. “La Turchia, finora, è stata più focalizzata sugli affari interni piuttosto che sul combattere l’Isis e, per essere chiari, la Turchia ha una storia lunga e sofferente con i gruppi terroristici curdi (che l’America sta sostenendo, ndr), ma la minaccia rappresentata dall’Isis non può passare inosservata. Quindi dobbiamo portare la Turchia a smettere di bombardare i curdi e a diventare parte integrante della nostra coalizione contro l’Isis. Gli Stati Uniti dovrebbero poi lavorare anche con le parti arabe per coinvolgerle nella lotta contro l’Isis. Per ora questi stati si stanno focalizzando su altre regioni perché sono più preoccupate da altre questioni, come la minaccia rappresentata dall’emergere dell’Iran. Questo è il motivo per cui l’Arabia Saudita ha spostato le sue attenzioni dalla Siria allo Yemen. Non dobbiamo poi scordare che l’Iran supporta organizzazioni terroristiche come Hezbollah e Hamas”.
La diplomazia con l’Iran e la lotta all’Isis non possono quindi essere viste come sfide separate, ma come parte integranti per raggiungere il medesimo obiettivo: la sconfitta dell’Isis e il tentativo di stabilizzare il Medio Oriente tramite una politica di alleanze strette per far fronte a un unico nemico comune: il terrorismo. Gli equilibri precari del sistema di alleanze sembrano rispecchiare in maniera veritiera quelli sulla carta e l’impresa, senza il sostegno di tutti, non è affatto di facile attuazione. “Non dobbiamo farci illusioni su quanto questa missione sia difficile, al di là dei nostri sforzi” dice Hillary.
Il secondo imperativo della lotta al terrorismo sarà quello di distruggere le infrastrutture terroristiche create dall’Isis per reclutare i combattenti e raccogliere finanziamenti e armi. La seconda linea va di pari passo all’attuazione della prima. Infatti, mentre il contenimento dell’Isis porterebbe l’organizzazione a ripiegare tutti i suoi sforzi sulla propaganda, una lotta e uno sforzo a livello di intelligence portato avanti da tutte le forze coinvolte, porterebbe alla sua distruzione. Anche su questo punto però, la Clinton non si fa illusioni, affermando poco dopo che la distruzione dell’Isis porterebbe all’impiego di una nuova organizzazione e poi di un’altra. È necessaria quindi la collaborazione di tutti e forse, anche se non è mai stata nominata, della Cina, che comunque ha già schierato i suoi arsenali. Il rischio che un conflitto regionale non si trasformi in una proxy war, può essere evitato solo e solamente tramite uno sforzo diplomatico incessante e continuo. Questo deve materializzarsi tramite il coordinamento di tutti, soprattutto a livello di intelligence.
L’Unione Europea dovrebbe creare un apparato che renda possibile lo scambio di informazioni sugli immigrati che arrivano con un passaporto falso o che hanno legami con organizzazioni terroristiche. Al contempo bisognerebbe bloccare il flusso dei foreign fighters, che grazie alla facilità di viaggiare senza controlli nei paesi occidentali, confluiscono in Siria per poi tornare nei loro paesi una volta radicalizzati e addestrati, elevando il rischio di attentati nei paesi di provenienza. Attualmente, il paese attraverso cui passano la maggior parte dei foreign fighters è la Turchia, che deve quindi inasprire i controlli alla frontiera. Non bisogna però sottovalutare anche il pericolo che ormai costituisce la rete, visto che il reclutamento dei combattenti avviene anche online. Serve quindi l’apporto imprescindibile delle maggiori aziende informatiche e di social media, che dovranno individuare e chiudere gli account dei terroristi. “Gli esperti privati e pubblici devono collaborare insieme”, ha spiegato la Clinton. “Sappiamo che c’è un grosso dibattito sul rapporto tra privacy e sicurezza. Tuttavia, le aziende non devono vedere i governi come un nemico, bensì come un alleato per garantire la sicurezza e la difesa dei cittadini”.
Lo sforzo di bloccare l’afflusso dei combattenti jihadisti deve andare poi di pari passo al blocco dei finanziamenti verso le organizzazioni terroristiche. Ogni paese deve quindi riformare le regole del proprio sistema bancario per impedire l’afflusso di capitali verso l’Isis e al-Qaeda che sta prendendo sempre più piede nello Yemen e nel Nord Africa. Il primo paese a dover stabilire regole ben precise a livello finanziario, secondo la Clinton, è l’Arabia Saudita, “che deve fermare il finanziamento delle organizzazioni terroristiche da parte dei propri cittadini”. Ciò che gli Stati Uniti si propongono, dunque, è un controllo capillare sia a livello territoriale che informatico, controllo che deve essere portato avanti anche e soprattutto nei propri confini nazionali, vigilando su quei quartieri in cui il reclutamento avviene di nascosto, come è accaduto a Bruxelles, che è servita da base per pianificare l’attacco di Parigi. La risoluzione approvata dall’ONU lo scorso venerdì sembra andare lungo le direzioni suggerite dalla Clinton, anche se, come ha affermato la candidata “va aggiornata stabilendo più obbligazioni per gli stati riguardo al controllo delle proprie banche nazionali”.
Il terzo pilastro della lotta al terrorismo è quello a favore dell’apertura, per impedire all’ideologia di uno scontro fra religioni di prevalere sul buon senso civile. Procedendo il suo discorso con logica, la Clinton ha ribadito che “l’Islam non è il nostro avversario. I musulmani sono persone pacifiche, tolleranti e non hanno niente a che vedere con il terrorismo. I conflitti in nome della religione che avvengono all’interno dei nostri quartieri non fanno altro che esasperare e ripetere all’infinito ciò che sta avvenendo in altri paesi. Invece che agire da deterrente, le persone che promulgano l’odio contro un’altra religione non fanno altro che sobillare l’ideologia dei terroristi, alienando partner di cui abbiamo bisogno, allontanandoli dalla nostra causa. Tutti i cittadini devono collaborare. Dobbiamo unire i nostri sforzi contro il nemico comune. Alla fine, non è importante che tipo di terrorista fosse Bin Laden, l’importante è che noi abbiamo ucciso Bin Laden”.
Insomma, il fine è più importante dei mezzi e l’accoglienza deve farsi muro, nella misura in cui i cittadini devono unirsi l’un l’altro per bloccare l’avvicinamento degli esclusi alla causa jihadista. "Non dobbiamo, non possiamo chiudere gli occhi di fronte al fatto che c’è un flusso pericoloso di estremisti all’interno del mondo musulmano, che continua a crescere. Per ora sono pochi in numero, ma si stanno diffondendo andando a toccare i nervi scoperti di situazioni di instabilità nei paesi del Nord Africa e dell’Asia. La povertà, la repressione, la corruzione, il collasso di stati sono tutti fattori che hanno contribuito a formare un cuneo attraverso cui l’estremismo sta dilagando. Diffondere la democrazia, creare strutture che favoriscano la crescita economica, impedire che armi chimiche, biologiche e atomiche vadano nelle mani di distruttori terroristi, sono misure importanti da prendere per sconfiggere l’Isis e impedire la nascita di altri movimenti e di quelli che verranno dopo".
Il discorso insomma è piuttosto complesso e la situazione rischia di deflagrare senza la collaborazione di tutti, a partire dagli stati, che non devono chiudere le loro frontiere, fino ad arrivare ai cittadini, che devono gettare le basi per una pace garantita dall’integrazione e dal rispetto reciproco. La Casa Bianca sta andando in questa direzione, arenando la proposta repubblicana di respingere i cittadini siriani e anzi cercando di incrementare il numero dei posti destinati ai rifugiati (manovra avviata due mesi fa dall’amministrazione Obama). Tuttavia, insiste Hillary, bisogna fare di più: “Dobbiamo portare la comunità internazionale a organizzare una conferenza fra donatori per supportare e incoraggiare i paesi che accolgono, come la Giordania che attualmente sta accogliendo il maggior numero di rifugiati siriani. Molti di questi rifugiati stanno scappando dal terrorismo e sarebbe una crudele ironia se l’Isis forzasse le famiglie a lasciare casa e al contempo impedisse a queste famiglie di trovarne una nuova”. Il discorso della candidata democratica alla nomination per la Casa Bianca, si è concluso con toni conciliatori: “Dobbiamo dimostrare che le persone libere, le menti libere, portano speranza. Cristiani, ebrei, musulmani, siamo sulla stessa barca”. Resta però fermo un fatto, ribadito più volte nel corso della mattina di giovedì 19 novembre al Council on Foreign Relations di New York, “gli Stati Uniti possono mobilizzare un’azione comune su scala globale. L’intero mondo deve far parte di questa lotta, ma noi dobbiamo guidarla”.
Non resta quindi che sperare che Russia e USA chiariscano con la “old fashioned diplomacy”, così come auspicato dalla Clinton, i loro punti di divergenza.