“La prima volta che mi sono recato in Etiopia era il 2009. Ero lì per girare un video per una Onlus sulle condizioni dei bambini di strada a Soddo, una piccola cittadina vicino ad Addis Abeba. Il paese mi ha talmente affascinato che da allora sono tornato per 4 anni di seguito”. A parlare è Marco Paoli, fotografo italiano, che ha recentemente presentato al Palazzo di Vetro la sua ultima mostra dal titolo “Ethiopia”. Paoli ha viaggiato diverse volte in Etiopia, con modalità sempre differenti: “Qualche volta sono andato con la famiglia, altre con colleghi. Mi sono spostato a piedi, in bicicletta e in macchina, a seconda delle zone. È chiaro che in Dancalia non avrei potuto spostarmi in bicicletta, sarebbe stato impossibile. Decido sempre i miei spostamenti in base al contesto e cercando di non 'disturbare' mai la popolazione locale”. La parola “disturbare” torna spesso nella conversazione con Paoli. Secondo il fotografo, infatti, la fotografia è un dono, non un’appropriazione indebita. “Ci sono fotografi che rubano i loro scatti, ma a me questo non piace. La mia etica è diversa. Io costruisco sempre le mie fotografie, cercando di passare il maggior tempo possibile con i soggetti che decido di fotografare. In questo modo divento parte del loro vissuto quotidiano, delle loro abitudini, senza essere visto come un intruso. Per fare alcuni scatti ho passato giornate intere con i soggetti, come per questa foto”. Paoli indica una foto che ritrae delle donne che parlano in un ambiente dall’atmosfera intima e familiare. Una delle donne ride di gusto e ha un’espressione del tutto spontanea e naturale, quasi non fosse al corrente della presenza del fotografo. “Il trucco è trascorrere il tempo insieme alle persone che decidi di fotografare. Una volta che diventi parte del loro mondo, non si accorgono più di te. Ecco perché considero le mie fotografie un dono”. Le foto di Paoli sono tutte in bianco e nero e sovraesposte. La sovraesposizione non sembra essere una scelta casuale, ma cosciente e perfettamente in linea con l’etica dell’autore. Permette infatti di focalizzare l’attenzione sui dettagli minimi, infinitesimali, come le linee delle foglie o i pochi fili di erba che si stagliano in un paesaggio arso, desertico. Il tutto dona alle fotografie di Paoli un tocco di realtà e astrattezza al tempo stesso. La luminosità delle foto da un lato fa sprofondare l’occhio di chi guarda in una dimensione irreale e sospesa nel tempo e dall’altra lo porta a toccare quasi con mano ogni dettaglio del paesaggio. I lunghi tempi di esposizione degli scatti, inoltre, contribuiscono a creare un’atmosfera rarefatta attorno ai soggetti rappresentati.
In una foto scattata in un mercato, per esempio, sembra quasi di percepire il movimento della gente, il trascorrere del tempo, in maniera quasi cinematografica. Quest’ultimo punto forse è il frutto della lunga esperienza che Paoli ha passato dietro alla cinepresa, lavorando nel mondo del cinema prima che in quello della fotografia.Alla fine della conversazione Paoli decide di tornare ancora una volta sul tema della fotografia come dono. Indicando un’immagine che rappresenta la comunità locale al mercato, Paoli dice: “Per fare questa foto mi sono piazzato davanti al mercato per una giornata. Ho fissato il cavalletto e ho aspettato. Volevo che la gente capisse perfettamente quale fosse il mio intento, in maniera chiara. All’inizio la maggior parte delle persone mi osservava, ma poi si sono quasi abituate alla mia presenza. Ho fatto 4 o 5 scatti e questo è il risultato finale”. Le fotografie di Marco Paoli sono insomma un dono dei cittadini etiopi, prezioso e inestimabile. Forse proprio per questo il fotografo ha deciso di contraccambiare il gesto, devolvendo l’intero incasso del suo libro “Ethiopia” a una Onlus locale. È tutto qui il segreto di Marco Paoli: nella commistione di arte ed etica.