“Tra vent'anni non sarete delusi delle cose che avete fatto ma da quelle che non avrete fatto. Allora levate l'ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.” Mark Twain
L’ho trovato scritto questa mattina in un biglietto. Accanto dei lumini accesi, intorno alla torre Eiffel raffigurata nel simbolo della pace. Ero nel piazzale interno dell’asilo, dove ho accompagnato le mie figlie piccole.
Parole che invitano a non aver paura, a trovare il coraggio di alzare la testa e guardare dritto, a rischiare malgrado tutto. Perché oggi, nel momento in cui scrivo, quando si ritorna al lavoro, non è un giorno normale. Quella normalità è stata sospesa.
Avverto un estraniamento, una sospensione del normale fluire delle cose, sulle quali è necessario tornare a riflettere. E lo faccio a partire dal senso che dovrò dare a quanto farò tra qualche ora: una lezione di Sociologia dei processi Culturali.
Come fare una lezione del genere? Cosa dire ai propri studenti? Non è semplice. C’è il rischio della banalità, o al contrario di andare a cercare ipotesi talmente sottili e intellettuali da renderle presuntuose e distanti. Oppure la delusione di mostrare che quando studiato, scritto, detto in tutti questi anni non sia servito a niente difronte a quanto appariva ai miei occhi solo poche ore fa’.
La realtà è quei ragazzi morti, i corpi trascinati fuori dal Bataclan dagli amici, le urla, i pianti immediatamente dopo le risate, il divertimento, l’ascolto di un riff di una chitarra, l’ordinazione di un piatto, la lettura dell’ultimo messaggio ricevuto, la festa di un compleanno.
Nei ragazzi universitari che incontravo questa mattina, arrivando nel mio studio, sovrapponevo quasi involontariamente, forse per la troppa esposizione mediatica o per le emozioni provate, quelli nel Bataclan, alla Belle Epoque, al Carillon o a Le Petit Cambodge. In particolare il pensiero va a Valeria Solesin, la ragazza veneziana rimasta uccisa mentre assisteva al concerto degli Eagles of Death Metal. Aveva ventotto anni, faceva un dottorato di Sociologia alla Sorbonne. Come molti scrivono era una di noi, una come noi. Alla sua stessa età anche io mi trovavo a Parigi, ci ho vissuto per quasi due anni, facevo anche io un dottorato di Sociologia, lo facevo in Italia ma a Parigi lavoravo e facevo ricerca. E anche io nel fine settimana andavo ai concerti, nei bar, nelle brasserie.
Frequentavo spesso proprio le zone intorno alla Bastille, luoghi dove vanno per la maggior parte i parigini, fuggendo quelli più turistici. Dodo, boulot e metrò (dormire, lavoro e metro) come dicono molti parigini durante la settimana, ma dal venerdì alla domenica si vive la città, fino all’ultimo. Perché Parigi è città della vita, dove senti giorno dopo giorno, fatica dopo fatica, conquista dopo conquista, quanto quella città riusca a ripagarti. A volte basta anche “poco”, una passeggiata lungo i quais della Senna, a Montmarte o alle Tuileries per afferrare la pienezza della vita. Una pienezza che alcuni odiano al punto da infrangerla così platealmente, così brutalmente.
Di Valeria c’è qualcosa in tutti in noi, noi che amiamo Parigi e che l’abbiamo vissuta per diventare “grandi”, ma anche in chi non l’ha mai vista e che sempre l’ha sognata. Di Valeria c’è qualcosa in tutti quei ragazzi italiani in giro per il mondo a dare il meglio di loro per far diventare realtà le loro speranze, e c’è qualcosa in tutti i loro genitori che hanno figli lontani e che vivono quotidianamente tra la gioia di vederli contenti seppur a migliaia di chilometri di distanza e il timore che possa accadere loro qualcosa e non essergli vicino.
Valeria esplorava, sognava e scopriva. E’ lei, insieme a tutti gli altri ragazzi che hanno perso la loro vita, la più grande lezione, il grande insegnamento. Sono loro che fanno la storia e che danno senso attraverso il loro vissuto alle nostre storie. Saranno loro a divenire le vele per i ragazzi di domani.
Non è possibile essere all’altezza di tale insegnamento, ma in un’aula quello che mi sento di fare è innanzitutto dare il meglio, nel senso di dare il meglio nel proprio lavoro per costruire giorno dopo giorno quelle piccoli grande certezze che danno senso alla nostra quotidianità. E agli studenti cosa dire? Che l’invito di Mark Twain risuoni ancora più forte, che non siano frenati dalla paura della paura, che quanto appreso in aula o in un testo non si fermi all’ostacolo esame, ma possa dare qualche risposta in più, nella consapevolezza che queste risposte, alla luce di quanto è accaduto, non sono scritte chiaramente, non sono dette assertivamente, ma le si trovano e si costruiscono insieme.
E per questo che mi auguro che i miei studenti, tutti gli studenti, comprendano ancor più l’importanza, a volte…ahimè… invisibile, di quanto stanno facendo: nel semplice gesto di aprire un libro, nel dare ascolto al compagno in difficoltà, nella disponibilità ad imparare continuamente riconoscendosi orgogliosamente umili. Qualcosa che poi… vale per tutti.