L’apparente metastasi del caos mediorientale è una delle conseguenze dell’accordo di luglio sul nucleare iraniano.
Com’era prevedibile, quell’accordo ha segnato l’inizio di una generale ridistribuzione di carte nella regione. Era evidente che tutti avrebbero cercato di guadagnare qualcosa dal nuovo contesto generale o, almeno, di non uscirne con le ossa rotte. I più forti, tramite il negoziato; i più deboli, tramite tutti i mezzi a loro disposizione, nessuno escluso.
Fin da subito è apparso chiaro che i candidati a uscire con le ossa rotte erano il fronte sunnita (Arabia Saudita e Turchia, e, in subordine, Qatar e Egitto) e Israele. È proprio da quel fronte che provengono le notizie più tragiche di questi ultimi giorni. In particolare, Israele e Turchia sembrano ormai essersi fatti aspirare nel gorgo mediorientale dal quale, in precedenza, si proclamavano orgogliosamente estranei. I loro governi hanno eletto dei nemici alla loro portata, e ora stanno facendo il possibile per accenderne i furori e alimentarne la violenza. L’Arabia Saudita, dal canto suo, continua indisturbata la sua guerra privata nello Yemen, accompagnata dall’assordante silenzio dei media e dei pacifisti sensibili alla sofferenza solo se palestinese.
Due sono le possibili spiegazioni di un comportamento così cinicamente brutale. Se nell’accordo di luglio sono stati decisi tutti i dettagli, si tratta, per quei paesi, di tentare di riguadagnare sul campo alcune delle posizioni perdute, oppure, nella peggiore delle ipotesi, di rendere ingovernabili le posizioni guadagnate dagli avversari. Se, come è assai più probabile, la partita non è che agli inizi, si tratta di conquistare terreno o, quantomeno, di impadronirsi di qualche pedina da spendere poi nelle future trattative.
Il gioco è assai rischioso, perché tutte le volte che i governi hanno evocato le forze oscure della violenza, credendo di potersene servire a loro piacimento, si sono alla fine rivelati goffi e rovinosi apprendisti stregoni. I calcoli del governo turco, poi, potrebbero rivelarsi due volte sbagliati: da qui ai primi di novembre, Recep Tayyip Erdoğan potrebbe infatti ritrovarsi con la guerra civile in Turchia e, al tempo stesso, sconfitto alle elezioni.
Diversa è la situazione per la Russia. Sulla carta, l’accordo di luglio l’ha danneggiata, facendo pendere la bilancia iraniana un po’ più dalla parte degli Stati Uniti. In realtà, è assai improbabile che, nonostante i rapporti di forza sfavorevoli, i russi possano aver acconsentito ad un accordo di tale portata senza portarsi a casa qualche contropartita (e lo stesso vale, sia detto en passant, per gli altri protagonisti di quell’accordo).
La Russia potrebbe essersi garantita, se non un posto, almeno un posticino al sole in quel Medio Oriente da cui la crisi dell’Unione Sovietica sembrava averla definitivamente esclusa. Certo, anche se fosse stata “autorizzata” ad intervenire in Siria, questo non chiuderebbe la partita, anzi: in politica, come negli scacchi, ogni mossa apre una serie di conseguenze e prospettive diverse e inaspettate. Ma i russi, da sempre grandi campioni di scacchi, in questo preciso momento sembrano capaci di muoversi su tutti i fronti contemporaneamente: su quello iraniano – il più delicato – ma anche su quello israeliano e saudita. Sul fronte turco, le tensioni sembrano più aspre; ma non è escluso che il Cremlino giochi sulle palesi fragilità politiche di Ankara, almeno fino alle elezioni del primo di novembre. E se l’intervento russo si rivelasse addirittura essere il fattore decisivo della fine del conflitto siriano, Putin ne uscirebbe col capo cinto d’alloro e una candidatura certa al Nobel della pace.
Per questo la metastasi del caos mediorientale è, forse, solo apparente. Senza l’accordo di luglio, molto probabilmente oggi la situazione sarebbe meno caotica, ma ferverebbero i preparativi di una guerra di tutti contro tutti: il fallimento della soluzione politica sarebbe sfociato nel tentativo di trovare una soluzione con altri mezzi. Con l’accordo di luglio, invece, si è aperta una fase di riassestamento che, per un tempo più o meno lungo, sarà necessariamente caratterizzata dal caos. E anche da calcoli sbagliati e, di conseguenza, da risultati non voluti.
In regola generale, più un conflitto si avvia a conclusione, più la “nebbia della guerra” si fa fitta. In Medio Oriente, dove la nebbia della guerra imperversa da cent’anni, è ancora più vero.