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September 3, 2015
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Dalla parte degli idioti xenofobi, prima che sia troppo tardi

Francesco ErspamerbyFrancesco Erspamer
Supporter della candidatura di Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti

Supporter della candidatura di Donald Trump per la presidenza degli Stati Uniti

Time: 5 mins read

I risultati di un’inchiesta di Public Policy Polling, diffusi martedì, mostrano che due terzi dei sostenitori di Donald Trump (peraltro il meno peggio fra i candidati conservatori alla presidenza) credono che Obama sia un musulmano e che non sia nato negli Stati Uniti. Del resto un sondaggio ripreso da The Nation questa settimana rivela che il 29% dei repubblicani della Louisiana attribuisce a Obama la colpa dei ritardi della protezione civile federale dopo l’uragano Katrina benché all’epoca (dieci anni fa) il presidente fosse George W. Bush e Obama solo un senatore dell’Illinois, stato ben lontano da New Orleans. 

Facile deridere questa ignoranza e questo fanatismo, entrambi cresciuti drammaticamente nel nuovo millennio, dopo il trionfo dei social media e la rinuncia della scuola a contrastarli per formare cittadini responsabili e menti critiche attraverso lo studio della storia, dei classici e delle discipline umanistiche (a che altro pensate che servissero?) – persino nell’eccellente distretto scolastico di Newton, sobborgo benestante e colto di Boston, in una zona ad altissima concentrazione di università, incluse Harvard e il MIT, l’insegnamento del latino è stato abbandonato a vantaggio di quello dell’iPad. In ogni caso stiamo parlando di milioni di persone, parecchie delle quali povere o ai limiti della povertà, infelici e spietatamente sfruttate e tuttavia pronte a votare per il partito delle corporation che li sfruttano e che apertamente promuove ulteriore liberismo. Che dovremmo farne di questa gente? Eliminarla o almeno privarla del voto per manifesta imbecillità? 

È il problema della sinistra e della democrazia: che non possiamo escludere nessuno e neppure sognare di farlo. Perché il nostro compito, e l’unica ragione per cui c’è bisogno di una sinistra, ossia di un partito che persegua una vera eguaglianza economica (dunque niente a che vedere con il Pd ma neppure con Obama o con l’attivismo interessato solo a specifici obiettivi di nicchia), è precisamente consentire il riscatto non solo dei miserabili ma anche degli idioti. E innanzi tutto capirli. Nella fattispecie è significativo che i seguaci di Trump non accusino Obama di essere nero bensì di essere uno straniero, un estraneo. E che siano infatti favorevoli a un’abolizione dello ius soli, ossia del diritto di chi nasca negli Stati Uniti di ottenere automaticamente la cittadinanza (un diritto ormai riconosciuto solo nel continente americano e in Pakistan).

La loro paranoia è un sintomo. Ci fa vedere che il sistema economico e sociale del neocapitalismo sta lasciando indietro una vasta maggioranza di individui fragili, stupidi o ingenui, un tempo in qualche modo protetti dalle loro comunità e oggi lasciati soli a fronteggiare pressioni e novità alle quali non sanno adeguarsi, perlomeno non con la rapidità richiesta dal consumismo ossessivo, di prodotti e di idee, che Wall Street pretende – e che mira soltanto a generare osceni profitti per avidi speculatori internazionali. È per questo che tanti americani ed europei si stanno rifugiando nella xenofobia (che è cosa diversa dal razzismo e confondere i due sentimenti rischia di portare a diagnosi e terapie errate). Perché hanno l’impressione, fondata, che nessuno più difenda il loro diritto di restare quello che sono e di rimanere dove sono, di conservare le loro abitudini e anche i loro pregiudizi, ai quali hanno ancorato, in mancanza di meglio, la loro identità. Discriminare un altro cittadino perché di colore o sesso differente è illegale in America e in Europa, e il divieto deve essere applicato con intransigenza. Ma esso non riguarda chi venga da fuori. La generosità, l’accoglienza, la bontà, la carità, sono virtù culturali, che vanno dunque coltivate (cultura/coltura): pensare di stabilirle per decreto e anche solo di pretenderle da chi non sia pronto o convinto, è assurdo, anzi è ingiusto, oltre che una resa totale all’ideologia globalista e consumista del pensiero unico liberista. 

Le tensioni non faranno che aumentare e insieme a esse la paura: sono pulsioni profonde, antropologiche, che neppure i media di regime riusciranno a contenere o indirizzare. Facile prevedere che sfoceranno in un immane bagno di sangue, guerre e stragi di ampiezza mai viste nella storia – com’è ovvio, mai nella storia c’è stata una società davvero planetaria e priva di alternative. La ferocia dell’Isis e la perfidia di Netanyahu sono solo due esempi: e prima o poi cominceranno a usare armi atomiche. Non dite, allora, che non ve l’aspettavate o che non c’era niente da fare. 

Perché qualcosa si può fare, prima che sia tardi. In particolare, bisogna smettere immediatamente di giocare con i popoli e con le culture come se davvero non contassero più e fossero state soppiantate dall’omogeneizzante multiculturalismo promosso dai profeti della globalizzazione. Quante persone credete che vivano al di fuori del loro paese d’origine? Secondo le statistiche dell’UNFPA (United Nations Population Fund), circa 230 milioni, ossia il tre per cento della popolazione mondiale. Così pochi? La ragione per cui sembrano di più è che i media non fanno che parlare di fughe di cervelli e di invasioni di migranti, usandoli per proclamare l’ineluttabilità storica della mobilità; per non dire del fatto che i cosmopoliti e gli arrivisti, ossia quelli che sono disposti a sacrificare legami e tradizioni per avere successo e denaro (anche in termini relativi, ossia rispetto alla loro condizione di partenza), si fanno sentire e notare mentre chi si accontenta tace e si nasconde. Parlo anche di me stesso.

Ma credere nella democrazia e nella giustizia non significa dare voce ai ricchi o ai vincenti o agli avventurosi o a chi abbia il coraggio di rischiare (generalmente i beni altrui) o la capacità di farsi valere. O meglio: questa è la visione meritocratica che della democrazia e della giustizia ha la destra. La sinistra deve dar voce agli altri: a quel 97% che sceglie di restare a casa o che non ha modo di fare altrimenti.

La xenofobia è un brutto sentimento che peggiora chi lo prova; ma è anche, come dicevo, il sintomo di un disagio reale e comprensibile. Di cui la sinistra dovrebbe approfittare per porre finalmente sul tappeto (e al centro del proprio programma) la questione della non ingerenza militare e commerciale in altri paesi, quali che siano le ragioni addotte da intellettuali e media interventisti per ordine delle corporation: una nuova dottrina Monroe ma applicata in maniera ferrea a tutte le regioni, l’Africa agli africani, il Medio Oriente ai mediorientali. Con aiuti economici senza contropartita, in forma di risarcimenti e compensazioni per i popoli che siano stati recentemente (diciamo negli ultimi 50 anni, non secoli fa) danneggiati o derubati dalle multinazionali. Il tutto necessariamente accompagnato, in Occidente, da politiche statali di controllo dei mercati, da una stretta regolamentazione delle attività finanziarie e da limitazioni alla circolazione di capitali e prodotti; e in generale da un deciso passaggio a una fase di decrescita programmata e possibilmente serena.

Utopia? Certo. Ma a questo punto l’alternativa sono la distopia del neocapitalismo attuale, la catastrofe ambientale prossima ventura, la possibile fine della civiltà e il ritorno alla legge della giungla. Almeno bisogna cominciare a parlarne. Prima che gli idioti si ribellino e tutto frani.

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Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

Nato a Bari, cresciuto a Parma e in Trentino, laureato a Roma, professore a Harvard. Mi interesso di letteratura, politica, storia delle idee e cambiamenti culturali. Insegno corsi su estetica, romanzo moderno e contemporaneo, Rinascimento, calcio. Di recente ho scritto: La creazione del passato, Sulla modernità culturale e paura di cambiare, Crisi e critica del concetto di cultura. Come Gramsci, penso che al pessimismo della ragione occorra accompagnare l’ottimismo della volontà, e come James Baldwin, che la libertà non la si possa ricevere in dono: bisogna prendersela.

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