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June 28, 2015
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Nel Mediterraneo russi e cinesi fanno le prove anti-americane

James HansenbyJames Hansen
Time: 3 mins read

Novità navale: Reds in the Med — La geopolitica tende a mostrare un’attenzione sproporzionata per le terre emerse e per le persone che le governano—anche se tre quarti del mondo sono coperti d’acqua. E’ comprensibile: i mari non hanno uffici stampa, giornali, ministeri degli esteri e nemmeno molti storici a raccontare la loro versione dei fatti.

Eppure, sono gli oceani il tessuto connettivo del globo. Il 90% del commercio internazionale si svolge via mare.  La “pax americana” del secondo dopoguerra in larga parte è dipesa dallo straordinario dominio della U.S. Navy, delle sue portaerei e i sottomarini atomici, sostanzialmente incontrastati, anche nei momenti più caldi della Guerra Fredda.

Per via degli altissimi costi e le lungaggini del ciclo di sviluppo e costruzione, gli equilibri  della potenza navale sono perlopiù abbastanza stabili. Ora però c’è un importante novità. Nella seconda metà di maggio la marina militare russa e quella cinese hanno condotto esercizi congiunti—di tipo “live fire”, cioè, si sparava—nel Mediterraneo orientale.

Per i russi, è stato una sorta di ritorno al pattugliamento caratteristico dei tempi della Guerra Fredda, per quanto in tono minore. Per la Cina Popolare invece lo sforzo era senza precedenti. Mai aveva mandato una formazione di navi da combattimento, in assetto da guerra, così lontano da casa. 

La presenza delle navi militari di Pechino nel Mediterraneo—anche solo in via occasionale—è molto insolita. L’ultimo caso che si ricordi è stato quello di una fregata cinese al largo della Libia per coprire l’evacuazione dei concittadini in seguito alla caduta di Gheddafi. Questa volta, delle dieci navi partecipanti alle manovre, quattro erano cinesi—due moderne “missile frigates” della classe Jiangkai II, la Linya e la Weifang, più due navi da supporto.

Dal punto di vista strettamente militare, l’operazione non è stata oltremodo significativa. Né russi né cinesi posseggono portaerei in grado di operare in condizioni di combattimento; le rispettive flotte sono di modeste dimensioni e non particolarmente avanzate in termini delle tecnologie impiegate. Non fanno venire i brividi agli americani.

Tuttavia, i due paesi sono tra i primi al mondo per la crescita della spesa militare. Tra il 2007 e il 2014 quella cinese è aumentata del 167% e l’investimento militare russo è all’incirca raddoppiato, mentre quello americano è leggermente diminuito.

Il valore totale invece dà una visione diversa. Nel 2014 gli Usa hanno speso $610 miliardi, i cinesi $216 miliardi e i russi $84,5 miliardi—non molti di più degli $80,8 dell’Arabia Saudita, ma soldi veri lo stesso.

Per quanto è presto per parlare di improbabili “alleanze”, entrambi i paesi hanno interesse a obbligare gli Usa a restare impegnati nel Mediterraneo—dove non minacciano né Russia né Cina.

Vale anche la pena notare che truppe cinesi hanno marciato quest’anno nella tradizionale parata del Primo Maggio nella Piazza Rossa a Mosca—e che le formazioni russe saranno presenti in settembre a Pechino per la speculare parata commemorativa della fine della Seconda Guerra Mondiale. Sempre più, è il caso di dirlo, marciano insieme—e in funzione anti-Usa.

 

 

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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