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May 22, 2015
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Patacche argentine per nascondere il patatrac dell’euro in Grecia

James HansenbyJames Hansen
Time: 3 mins read

Il ‘patacone’ che salverà la Grecia — E’ facile perdersi nelle cose che contano sul serio e dimenticare che per i Richelieu di provincia e i politici riciclati che gestiscono l’Unione Europea da Bruxelles, il crollo dell’economia greca è soprattutto immensamente imbarazzante.

Che il Paese sia ben oltre l’orlo della bancarotta e che dovrà in una maniera o l’altra uscire dall’euro è ormai evidente. Ammetterlo però, e agire di conseguenza, è impossibile. Sopra ogni altra cosa, bisogna organizzare l’uscita in modo di potere negare l’evidenza. E’ questo il nocciolo del problema, almeno quello politico. Per fortuna, una soluzione—reale quanto fantasiosa —esiste: il patacón.

Niente di ciò che è successo in Grecia è veramente nuovo. Per molti aspetti la situazione—troppi debiti in una valuta forte, le casse vuote dello Stato, la pessima gestione della res publica e così via—ricorda da vicino il collasso dell’economia argentina alla fine degli anni ’90. In quel caso la valuta troppo forte era il dollaro Usa, ma poco cambia.

Il problema immediato per l’Argentina era che non c’erano più i pesos per pagare i dipendenti, soprattutto pubblici e parastatali, né potevano esserci perché la moneta nazionale doveva per legge valere un dollaro—e quelli li avevano già spesi tutti. In Grecia l’euro deve valere un euro, però concettualmente ci siamo.

E’ stata la Provincia di Buenos Aires a tirare il patacón fuori dal cilindro nel 2001, dandogli il nome di una vecchia moneta argentina. Formalmente era una “Letra de Tesorería para Cancelación de Obligaciones de la Provincia de Buenos Aires“. La “valuta complementare” si è poi allargata in buona parte del paese.

Non era veramente denaro, per quanto gli somigliasse, ma un’obbligazione, un prestito da parte di chi lo accettava a chi lo emetteva, un “pagherò” truccato da banconota—e come tale rendeva anche il 7% annuo. Così, si diceva, non sarebbe solo stato subito spendibile, ma perfino uno strumento di risparmio —finalmente anche i poveri potevano diventare ricchi…

Si era cominciato inserendo il patacón nella busta paga dei dipendenti pubblici, dove non è stato accolto con entusiasmo, ma si riconosceva che era meglio di niente—l’alternativa. Per i commercianti il caso era simile. Potevano o accettarlo o non vendere. Quando perfino McDonald’s si piegava all’inevitabile, è diventato possibile dire che fosse entrato in circolazione corrente, almeno per i piccoli e medi acquisti.

Sopra ogni altra cosa però, si potevano saldare le imposte in patacones— che tecnicamente “valevano” pesos che “valevano” dollari—un aspetto che ha rimesso in moto il fisco, dato che i contribuenti scannati avevano largamente smesso di pagare le tasse, altro elemento che ricorda la situazione greca. Ovviamente, il Governo argentino non era entusiasta di dovere accettare “soldi” che non valevano nei fatti niente, ma dal punto di vista contabile erano “praticamente” dollari, una meraviglia!

Gli ultimi patacones sono stati liquidati nel 2006—nominalmente in pesos, ma ovviamente non più in quelli che valevano un dollaro. Era stato tutto un bidone, seppure “di Stato”, ma uno che ha salvato il Paese, fluidificando i rapporti economici e permettendo alla classe politica—e se vogliamo anche alla popolazione—di fingere ancora per un po’ che tutto andasse per il verso giusto.

A Bruxelles la soluzione piacerà molto—così non sarà “la Grecia” a lasciare l’euro, solo la sua popolazione—ma il patacón greco non dovrà assolutamente chiamarsi “dracma”. Sarebbe troppo—come ammettere che qualcuno avesse sbagliato qualcosa…

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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