Le lunghe fasi di indecisione e gli stop and go nelle opzioni strategiche fanno parte del Dna dell’Unione europea; ci conviviamo felicemente sin dalle origini. Jean Monnet, padre fondatore della prima istituzione, la Comunità del carbone e dell’acciaio al vertice della quale fu messo dai governi che l’avevano formata, si dimise presto da ogni incarico in ragione di uno degli stop più clamorosi, quello sull’abortita Comunità di difesa. Ed eravamo negli anni ’50.
Preoccupa, ai nostri giorni, la mancanza di leadership, la faglia sempre più evidente su cui slittano i paesi della periferia che circonda il centro strategico dell’Unione fatto da Germania, Francia e Italia: Regno unito, Danimarca, nuove democrazie centro-orientali non ce la fanno a reggere il passo della storia e dei fatti che esigono più Europa politica, più decisioni comuni, più integrazione. Il confermato Cameron scherza col fuoco del referendum sull’Unione, l’Ungheria è tentata dai suoi fantasmi nazionalistici e neo-autoritari, la Grecia rivendica eccezioni che nessuno può concederle, e così via in un fiorire di rivendicazionismi nazionali che non hanno sbocco pratico ma lesionano la solidarietà verso istituzioni e programmi comuni.
Il caso più recente riguarda la risposta europea alla pressione migratoria alle frontiere mediterranee, che affligge in particolare l’Italia. Mentre l’Unione punta a superare le storture create dal compromesso di Dublino del lontano 2003 sul diritto d’asilo (regolamento 2003/343/Ce), da sempre criticato da Consiglio d’Europa e Nazioni Unite, diversi stati membri (segnatamente Regno Unito, Danimarca e nuove democrazie dell’Europa centro orientale) si dissociano, rifiutando le quote nazionali di assorbimento che la Commissione propone. Altra partita sulla quale non si raggiunge unanimità è quella che vedrebbe navi e altri mezzi dell’Unione operare sul terreno di provenienza delle carrette (Libia in particolare) che trasportano verso l’Europa masse di disperati pronti anche a morire in mare piuttosto che restare nei rispettivi inferni d’origine.
L’insofferenza del nucleo duro dell’Unione verso i membri che ritengono di essere tali solo quando si tratta di passare alla cassa per incamerare da Bruxelles risorse finanziarie di sostegno è palpabile e sulla questione emigrazione, in particolare, gode del sostegno che Federica Mogherini è riuscita ad avere alle Nazioni Unite. Significa che sarà molto difficile ai riottosi sottrarsi al dovere della solidarietà comunitaria in questa materia. Tuttavia il problema generale resta.
E’ convinzione diffusa che a fronte dei gravi problemi interni che l’Unione deve risolvere (le difficoltà economiche, specialmente finanziarie e occupazionali, del suo sud; le arretratezze delle nuove democrazie; il disamore britannico verso le istituzioni; gli squilibri nelle politiche fiscali e sociali) e delle sfide che arrivano dall’esterno (il terrorismo islamico, le guerre al confine orientale e meridionale; il possibile ricatto russo sull’energia), i meccanismi decisionali non possono subire la zavorra delle eccezioni nazionali. Nell’Europa a quindici il tandem franco-tedesco smuoveva dal pantano la carretta comunitaria e la rimetteva in marcia. La sensazione è che oggi non ci sia nessuno in grado di forzare la mano a riottosi e pavidi.
Ma senza leader la politica non produce né decisioni né comportamenti. Lascia i problemi a imputridire nella palude delle omissioni. Il referendum britannico sull’Unione, qualunque sarà il risultato, toglierà l’ultimo ostacolo al necessario rilancio dell’Unione. E’ sperabile che, nel frattempo, la crisi economica sia finalmente alle spalle e che la Grecia sia tornata ragionevole.