Tra aprile e settembre, cinquant’anni fa, Pakistan e India si affrontarono per il Kashmir, replicando una guerra che avevano inutilmente combattuto nel 1962, e che avrebbero altrettanto inutilmente inscenato nel 1998. Tra talune nazioni si praticano inimicizie durature e feroci, che hanno bisogno di esprimersi ripetutamente attraverso conflitti cruenti. Fu così in Europa per secoli tra Francia e Inghilterra, Francia e Germania, Turchi e Greci. Le inimicizie tra le nazioni generate dalla partizione dell’India britannica nel 1947, sono apparse persino più perverse, perché fondate anche sull’irriducibilità del rapporto tra islam, induismo e buddhismo.
Nel 1965 le cose mettono al peggio quando gli indiani capiscono che i pakistani stanno infiltrando unità paramilitari nelle zone confinarie montane, in particolare in Kashmir, regione nel settentrione del subcontinente indiano la cui esistente linea di frontiera risulta non riconosciuta. Anche se le popolazioni non seguono gli incitamenti alla rivolta contro Nuova Delhi, l’India non può non intervenire. Si avranno mesi di guerra in condizioni climatiche e logistiche precarie, e migliaia di vittime in ambedue gli schieramenti, fin quando il cessate il fuoco Onu non consiglierà le parti ad aderire alla dichiarazione di Tashkent. Il grosso dello scontro avviene in agosto, con l’invasione di circa 30mila pakistani e l’adeguata risposta indiana.
L’imposizione del cessate il fuoco avrebbe avuto, fra gli altri effetti, quello di non stimolare nei due paesi un dibattito obiettivo su cause e modi di conduzione della guerra, dando fiato alla retorica patriottarda: ciò che, in prospettiva, avrebbe penalizzato soprattutto il Pakistan. Nel 1971, quando le sue regioni orientali sarebbero state invase dall’India, si sarebbe trovato di fronte alla secessione del Bangladesh. L’India, vincitore politico della guerra del 1965 e più solido regime democratico, avrebbe raccolto i frutti dell’indebolimento del nemico.
Si era in tempi di guerra fredda. L’India, dal conflitto del 1965, usciva con il potenziale di armamenti rafforzato rispetto all’avversario, e con accresciuto ruolo politico nel movimento dei non allineati. Gli Stati Uniti presero piuttosto male la nuova situazione, che di fatto modificava gli assetti di una zona di grande interesse strategico, ma friabile, con Cina e Russia a un tiro di schioppo. Il Pakistan aveva un accordo di cooperazione con Washington, che prevedeva anche l’aiuto armato statunitense. Ciò nonostante, la diplomazia americana si risentì con Islamabad per quelle che considerò azioni unilaterali di aggressione, che davano spazio all’attivismo cinese in zona e spingevano l’India a flirtare con l’Urss. La neutralità statunitense avrebbe comportato riduzioni e sospensioni di aiuti e vendite di armamenti all’India, ma anche al Pakistan.
L’aggressore, battuto sul campo, non si riprenderà dall’esito del conflitto. Ha perso una vasta parte della sua struttura armata, e ha ridotto in pezzi un’economia che stava manifestando un’avanzata travolgente. Il budget della difesa schizza a quasi il 10% del prodotto interno lordo, e all’inizio del decennio successivo quasi il 56% del bilancio pubblico va alle Forze armate che, nel frattempo, si vanno impadronendo della società e della politica. Quando l’estremismo islamico, decenni dopo, avrebbe presentato il suo feroce conto al nuovo ceto dirigente installatosi ad Islamabad, col sostegno americano, avrebbe trovato un paese sotto dittatura, fiaccato, ambiguo, e incapace di adeguata reazione.