Si è celebrato in tutto il mondo, il 7 aprile – come ogni anno – il 21° International Day of Reflection on the Genocide in Rwanda (Giornata di Riflessione sul Genocidio in Ruanda), un terribile e sanguinoso capitolo non solo della storia ruandese e africana ma dell’umanità in generale.
La triste storia di quanto accadde allora è ormai nota, anche se alcune ombre e retroscena persistono. La goccia che fece traboccare il sangue fu proprio la percezione di una divisione etnica da parte della popolazione del Ruanda, in gran parte un effetto del dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga. I coloni introdussero le carte di identità e iniziarono a classificare rigidamente i ruandesi in funzione del loro status sociale e delle loro caratteristiche somatiche, in particolare distinguendo chiaramente fra Hutu, Tutsi e Twa. I Tutsi, in genere più ricchi ne furono favoriti. Dopo sanguinose rivolte e massacri, tra il 1959 e il 1962, gli Hutu estromisero dal potere i Tutsi. Il 6 aprile del 1994 l'aereo presidenziale dell'allora presidente Hutu, Juvénal Habyarimana – al potere con un governo dittatoriale dal 1973 – fu abbattuto da un missile terra-aria, mentre era di ritorno insieme al Presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira da un colloquio di pace. Ancora oggi è ignoto chi sparò quel missile. Comunque sia subito dopo lo schianto dell'aereo, con il pretesto di una vendetta trasversale, cominciarono i massacri – che si intensificarono dal 7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dalle forze governative (FAR, Forze Armate Ruandesi) – della popolazione Tutsi e di quella parte Hutu imparentata con questi o schierata su posizioni più moderate, ad opera della Guardia Presidenziale e dei gruppi paramilitari Interahamwe e Impuzamugambi, con il supporto dell'esercito governativo. Il segnale dell'inizio delle ostilità fu dato dall'unica radio non sabotata, l'estremista "RTLM" che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli "scarafaggi" tutsi. Per ben 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo e vennero massacrati oltre 800.000 innocenti in maniera pianificata e capillare, in un massacro che avvenne principalmente non con armi da fuoco ma bensì machete. Il genocidio ruandese ebbe termine nel luglio 1994 con la vittoria dell'RPF ovvero il Fronte Patriottico Ruandese – gruppo politico-militare nato nella comunità Tutsi rifugiatasi in Uganda – nel suo scontro con le forze governative.

Un momento ieri al Palazzo di Vetro dell’ONU del ricordo del genocidio nel Ruanda (Foto ONU – Evan Schneider)
Alla cerimonia di commemorazione che si è tenuta al Palazzo di Vetro dell'ONU a New York, il segretario Generale, Ban Ki-moon ha affermato: “La nostra osservanza annuale nel ricordare non solo le vittime ma anche il dolore e il coraggio di coloro che sono sopravvissuti, è ancora più significativa quest'anno che celebriamo il 70° anniversario della fondazione delle Nazioni Unite”. Nel suo messaggio, Ban Ki-moon ha sottolineato che molti paesi devono affrontare oggi gravi minacce alla sicurezza, con persone che vengono sottoposte alla brutalità di violenti conflitti e alle umiliazioni della povertà. La discriminazione persiste nelle società lacerate dalla guerra, così come nelle democrazie che godono ampiamente della pace. L'odio può manifestarsi sotto forma di razzismo istituzionalizzato, conflitto etnico o episodi di intolleranza o di esclusione. In altri casi, la discriminazione riflette l'ufficiale, versione nazionale della storia che nega l'identità di alcuni segmenti della popolazione.
Riferendosi a quanto accade oggi nel mondo, dall’Iraq e la Siria passando per la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan e altri paesi ancora, Ban Ki-moon ha poi ribadito: “Deploro i conflitti e i crimini atroci presenti in molte parti del mondo, che continuano a dividere le comunità, uccidendo e spostando la gente, minando le economie e distruggendo il patrimonio culturale”, sottolineando che il primo dovere della comunità internazionale è sempre di evitare queste situazioni e proteggere gli esseri umani più vulnerabili e in difficoltà. Poi Ban Ki-moon ha illustrato l’iniziativa onusiana denominata Human Rights Up Front, la quale cerca di prevenire le gravi violazioni dei diritti umani agendo proprio sugli iniziali segnali di allarme prima che diventino più seri. “Il nostro obiettivo è di assicurare un'azione rapida e decisiva per salvare vite umane e fermare gli abusi. Invito tutti a trovare il coraggio ad agire prima che le situazioni si deteriorino e facendo appello alle nostra responsabilità morale e collettiva”, ha detto in merito il capo delle Nazioni Unite, ricordando che alla commemorazione dello scorso anno nella capitale ruandese, Kigali, aveva esortato il mondo a esercitare la “Umuganda”- riunirsi in uno scopo comune – per scongiurare ciò che si può prevenire e contrastare le crudeltà che si svolgono sotto i nostri occhi.
All’evento vi ha preso parte anche una dei sopravvissuti al genocidio, Regine Uwibereyeho King, la quale ha condiviso la sua drammatica, straziante e terribile storia con i presenti. Un intervento molto autorevole è stato quello della rappresentante permanente USA all’ONU, l’Ambasciatrice Samantha Power che ha descritto minuziosamente l’orrore delle uccisioni avvenute nelle città di Nyakizu, Gasasa e nell’università di Butare, ha voluto ribadire che “quando si parla di 800.000 ruandesi uccisi, è facile pensare al genocidio come un unico, atto indifferenziato di barbarie. In realtà, tuttavia, il genocidio si compone di tante atrocità individuali come quelle avvenute a Gasasa e Butare – giorno dopo giorno dopo giorno, per cento giorni consecutivi”.
Power ha poi esortato a fare di più che piangere le vittime ma a ricordare a noi stessi che la sofferenza dei ruandesi sarebbe stata evitabile con una prevenzione migliore e rapida oltre che con una condanna unisona all’azione a livello internazionale, fornendo più caschi blu – e non ritirandoli come accadde allora – ma anche creando mandati più robusti e chiari rispetto a quello che ebbe l’UNAMIR nel 1994.
Infine la numero uno degli USA all’ONU, in modo diretto e commovente, ha affermato (e tutti noi dovremmo pensarci su): “Riflettendo sul passato, dobbiamo evitare le atrocità nel nostro presente. Quando ricordiamo il massacro dei Tutsi sulla collina di Gasasa, come possiamo non pensare agli yazidi che erano circondati sul monte Sinjar, o alle vittime dell’ISIS o ISIL, i cui corpi sono stati riesumati questa settimana da fosse comuni in Tikrit? Come non pensare ai palestinesi intrappolati a Yarmouk? Proprio in questo istante 18.000 residenti di Yarmouk stanno sopportando questa sofferenza. La soglia inerente la protezione dei civili non può essere limitata ai soli atti di genocidio. Dopo tutto, quando abbiamo appreso degli studenti universitari di Garissa in Kenya – tirati fuori dai loro dormitori e giustiziati – siamo stati meno inorriditi nel riascoltare la storia degli studenti universitari Tutsi massacrati in Butare? Come si vede questi attraverso questi parallelismi, faremmo bene ad imparare dai nostri colleghi ruandesi, che onorano quello che è successo, non solo attraverso la memoria e il dolore, ma anche attraverso l'azione nel presente. Quando la violenza nella Repubblica Centrafricana ha minacciato di raggiungere proporzioni da genocidio, il Ruanda ha inviato le sue truppe a servire come forze di pace – un ruolo in cui si sono impegnati soprattutto a proteggere i civili”.
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