Quando Sarkozy decise, dalla sera alla mattina, di aprire le ostilità contro la Libia di Gheddafi per far dispetto a Berlusconi, amico stretto del dittatore di Tripoli, rendendo all’Italia lo sgarbo subito in Tunisia, non immaginava certamente in quale incubo avrebbe cacciato quel paese. Il proditorio attacco francese è del 19 marzo 2011. Quattro anni dopo si deve constatare che lo stato libico è praticamente inesistente, con due poteri che si combattono e un terzo incomodo, il sedicente stato islamico, che nel caos creatosi avanza pretese. La riunione convocata in Marocco giovedì tra le due parti ufficialmente in lizza non brilla per risultati eclatanti, benché segnali qualche volontà di dialogo tra i contendenti, non tanto al fine di salvare lo stato dall’autodistruzione e dalla frammentazione in tribù e signori della guerra, quanto per dare una risposta coesa alla minaccia del califfato islamista che dall’embrione mediorientale cerca di tracimare nel Maghreb.
Come effetto delle sanzioni stabilite contro Gheddafi dal Consiglio di sicurezza con risoluzione del 28 febbraio 2011 e delle azioni intraprese poi dall’Occidente, con Francia capofila e gli altri, Italia inclusa, ad accodarsi, non c’è male. Si è replicato il modello di tutte le crisi armate del dopo bipolare, con le potenze, Onu spesso complice, a scoperchiare i geni dell’assassinio e della distruzione per quindi ritirarsi in buon ordine lasciando ai complici locali, armati e addestrati, l’onere di scannarsi bellamente senza puntare a nessuna conclusione risolutiva, così da poter ricominciare, dopo eventuali tregue, quando le condizioni lo consigliassero o permettessero. E difatti l’ambasciatore di Tobruk all’Onu dichiara che se non si fa il governo di unità nazionale per fine mese, vuole armi, e l’Italia in prima fila.
Gli effetti dell’escalation libica, anche nello scenario No Boots on the Ground sarebbero tremendi sulla stabilità del Mediterraneo e dell’Africa: anarchia libica significa infezione verso il Medio Oriente, banditismo nel Mediterraneo, porte aperte a qualunque avventura da e per l’Africa. Resta la sensazione che, se già con Gheddafi la Libia risultava incontrollabile e imprevedibile (ero per lavoro in Libia, col beneplacito delle ambasciate di Tripoli e Roma, nell’immediata vigilia dell’attacco francese, e nessuno che sospettasse minimamente quanto stava per scatenarsi) men che meno siano oggi lecite previsioni attendibili sulla soluzione della crisi in corso.
Possiamo e dobbiamo ragionare sugli interessi dell'Italia nell’affaire. Il primo riguarda il ristabilimento di margini di sicurezza nel Mediterraneo libico, anche ai fini del controllo dei flussi di migranti e del contrasto al contrabbando di petrolio. Il secondo ha a che vedere con le forniture energetiche sulle quali facciamo affidamento, e sull’esecuzione dei contratti di opere che nostre imprese vorrebbero realizzare. L’altro obiettivo, riportare la Libia nel novero delle nazioni civili con le quali realizzare il tanto atteso concerto euro-mediterraneo, dovrà attendere tempi migliori. L’incapacità dell’Ue a farsi sentire nella crisi libica è tale che la questione non può essere neppure posta.
Bisognerà probabilmente andare alla sostituzione dell’attuale inviato dell’Onu nella crisi libica, Bernardino León, che appare troppo molle e torpido rispetto alla ruvidezza e complessità del teatro libico. Se, nella conferenza in Marocco, la proposta Onu di accordo per la sicurezza e la formazione del governo di unità nazionale con un primo ministro e due vice, non sembra generare entusiasmi, lo si deve anche alla scarsa presa del diplomatico. Eppure, come arma di convinzione, aveva a disposizione l’avanzata, in terra libica, degli armati islamisti.