Timbuktu, il nuovo lungometraggio del regista mauritano Abderrahmane Sissako, Bamako, 2006 è finora il suo film più noto, esce in un momento in cui nulla sembra arrestare l’avanzata dell’ISIS. L’ultimo successo delle milizie fedeli al Califfato Islamico è stata la conquista di alcuni quartieri di Sirte, in Libia, dove hanno preso il controllo di TV e radio locali. Così dopo la strage di Parigi alla rivista Charlie Hebdo e il brutale gesto con il quale lo Stato Islamico ha bruciato vivo il pilota giordano che teneva in ostaggio dal 24 dicembre scorso, sembra ormai chiaro che il Califfato non rappresenta un fenomeno marginale, ma una strategia che l’Occidente non riesce a capire.
E mentre in qualche città della Francia la proiezione del film è stata annullata o addirittura vietata, come in un sobborgo di Parigi dove il sindaco ha accusato il film di fare apologia del terrorismo, Hollywood inserisce Timbuktu nella cinquina dei candidati all’Oscar 2015 come migliore film straniero.
Gli eventi che si raccontano sembrano ripercorrere ciò che sta accadendo in questi giorni a Sirte. La prima scena del film ritrae un folle inseguimento ad una gazzella da parte di gruppo di jihadisti a bordo di una jeep, su cui svetta una bandiera nera molto simile a quella che l’ISIS ha issato sugli edifici della città libica. Siamo nel 2012 una coalizione di estremisti islamici occupa Timbuktu, antica città del Mali con un piede nella cultura islamica e l'altro in Africa occidentale. In poco tempo i miliziani in preda ad una furia settaria impongono ogni tipo di divieto, determinati a controllare le vite di un’intera popolazione. Musica, risate, sigarette e addirittura il calcio, vengono messi fuori legge. Le donne sono obbligate a mettere il velo e a nascondere anche mani e piedi con guanti e calzini nel caldo torrido del Mali. E mentre a Timbuktu regna il caos, a pochi chilometri di distanza, in una tenda tra le dune sabbiose vive tranquilla una famiglia tuareg. Ma il loro destino cambia improvvisamente quando un episodio tragico li porterà ad affrontare la nuova legge che hanno portato gli invasori.
“Durante l’occupazione ogni giorno una nuova corte improvvisata emetteva tragiche e assurde sentenze. Una di queste è diventata la fonte di ispirazione del film”, rivela il regista in conferenza stampa. Nell’estate del 2012, una coppia di trentenni viene uccisa a sassate perché aveva avuto figli senza essere sposata. Un crimine sul quale i mezzi di comunicazione di tutto il mondo chiusero gli occhi. Nel video del loro assassinio, che è stato pubblicato sul web, la donna muore colpita dalla prima pietra, mentre l’uomo butta fuori un urlo disperato. Poi silenzio.“Timbuktu non è Damasco o Tehran. Non è trapelato niente di questa storia. Tutto quello che racconto è orribile lo so, ma non ho usato un fatto così atroce per promuovere il film”, aggiunge Sissako.
Un film visivamente travolgente. Alla bellezza dei paesaggi in pieno deserto, degli animali e dei tramonti africani il regista contrappone la miseria e la cattiveria umana. Ma Timbuktu è soprattutto fatto di piccoli atti di resistenza contro un fondamentalismo religioso becero e grottesco, il cui unico scopo è quello di cancellare tradizioni e civiltà. E così vediamo la venditrice di pesci che rifiuta di mettersi i guanti perché non potrebbe pulire il pesce al mercato. Un gruppo di ragazze e ragazzi pubblicamente fustigati perché scoperti ad ascoltare musica, addirittura nella stessa stanza. L’imam della locale moschea che affronta il leader jihadista ricordandogli l’idea di un Islam lontana da quella che vede nell’applicazione rigida della sharia la sua unica forma d'espressione. Dei ragazzi inventano una partita di calcio con un pallone invisibile, “perché l’immaginazione rimane l’unica arma per combattere un’ideologia assurda ed ottusa”, conclude Sissako.
Un’invasione durata dieci mesi fino al giorno in cui una coalizione guidata dalla Francia libera la città maliana. Ma l'episodio di Sirte dimostra come l’incubo Timbuktu è tutt’altro che finito.