L’ho conosciuto nel 1997, aveva 23 anni e voleva fare l’attore. Anzi no, voleva fare il cantante. Va bene, diciamo così, voleva fare un po’ l’attore e un po’ il cantante.
Avevo scelto Simone Piccioni per recitare un ruolo importante nel mio secondo film da regista, Un anno in campagna, storia di un gruppo di ragazzi che, in pieno stile utopistico anni Settanta, decidono di abbandonare la caotica vita di città per andare a coltivare la terra e allevare animali. Naturalmente, poiché contadini non ci si inventa, le cose finiscono piuttosto male e la sgangherata comune giovanile è destinata a fallire.
Dopo svariate peripezie alla ricerca di una distribuzione nazionale adeguata, il film uscì infine nei cinema nella primavera del Duemila, con alterne fortune. Oggi si può trovare intero su YouTube, per chi ha voglia di vederlo e magari di farsi anche due risate. Per scegliere i miei protagonisti, tutti giovanissimi, avevamo fatto centinaia di provini, scartando, tra l’altro, attori destinati a diventare in seguito piuttosto famosi come, ad esempio, Enrico Brignano e Filippo Nigro. Ma lui, Simone, era proprio giusto per quel ruolo. L’avevamo scelto convinti, anche se lui sembrava distratto, come se non fosse contento della nuova opportunità che gli balenava davanti.
“Forse devo andare a Sanremo. Mi sa che questo film non lo posso fare”, ci disse infine, scuotendo la testa. Venimmo così a sapere che il giovane, oltre a recitare, cantava anche in un duo artistico con un suo amico ed i due erano in lizza per partecipare al prossimo festival della canzone.
“L’amico mio si chiamava Mirko – racconta oggi Simone – Lui ancora canta mentre io, poi, ho scelto altre strade anche se la chitarra, quella classica, è sempre sfoderata e accordata perfettamente. La suono spesso e mi piace anche scrivere canzoni. La musica, comunque sia, racconta la profondità”.
Insomma, allora eravamo abbastanza disperati. Mancavano pochi giorni alla data stabilita per l’inizio delle riprese e stavamo quasi per ricominciare a fare dei nuovi provini, per scegliere un altro attore in quel ruolo, quando uscì la lista dei giovani scelti per Sanremo. Simone non c’era e così fu libero di interpretare quella parte.
“È un ricordo intenso quel tuo film, è stata la cosa più importante che ho affrontato come attore, un altro momento davvero speciale della mia vita. Il rimpianto, se esistesse, sarebbe quello di non essere stato bravo ad esprimere tutto quello che avevo dentro. Forse avrei dovuto studiare di più, ma non l’ho fatto. Comunque grande esperienza la recitazione! Ho fatto un po’ di cinema, un po’ di teatro e qualche fiction in TV. Fare altri mestieri, come anche la musica, ti completa, ti apre, spacca le parti più dure che, se no, si atrofizzano”.
Già, perché, nel suo destino, non c’erano né la musica, né, tantomeno, la recitazione. C’era Roma. Non sapevo ancora, infatti, che, per essere davvero un artista a tutto tondo, Simone fosse anche un bravissimo pittore, che aveva frequentato il liceo artistico e l’Accademia di via Ripetta.
“Ho disegnato molto durante il liceo, poco colore, solo acrilico. Ho iniziato a dipingere ad olio solo in seguito, all’Accademia che ho frequentato per un solo anno. Ho lasciato in fretta e con rabbia, perché non mi piaceva proprio niente del metodo di insegnamento e delle regole imposte. Anche se sicuramente ero invece io a non essere pronto. Comunque, ripensandoci adesso, posso dire che ho imparato di più copiando i maestri che frequentando le lezioni. Non credo che qualcuno di questi mi abbia influenzato, forse un po’ di più icontemporanei, gli iperrealisti e i surrealisti soprattutto”.
Negli ultimi anni Simone ha scelto di dipingere la sua città e lo fa in un modo davvero caratteristico che è stato subito apprezzato da tantissime persone e osannato dai critici che hanno frequentato le tante mostre in Italia e all’estero a cui è stato invitato a partecipare.
“Da piccolo disegnavo orologi e aerei, niente di spettacolare. Oggi dipingo Roma, perché è infinita, lo è nei colori, nella luce e, soprattutto, nella mia testa. Dipingo olio su tela, qualche volta su tavola. Cerco di trovare la luce giusta, come faccio non lo so, sinceramente. Cerca di trovarla, se la trovo, tra l’ombra più scura e il tono più chiaro, è quella in mezzo ai due che mi emoziona di più. Quindi ho bisogno di tutte le variazioni”.
Già, la luce di Roma. Nella storia tanti pittori hanno provato ad immortalarla su una tela, in tanti scrittori hanno cercato di descriverla sulle pagine di un libro. L’ultimo è stato Andrea Camilleri nel suo romanzo di memorie Come la penso, in cui scrive: “Roma non ha una tavolozza uguale per tutti, ma ne ha tante per quanti sono gli abitanti. Ognuno infatti riceve da Roma una sorta di regalo personale solo in minima parte condivisibile, consistente appunto nei colori, le cui sfumature egli solo può vedere e gustare”.
Il papà di Montalbano ha ragione e il nostro Simone tutto questo l’ha capito perfettamente, poiché la Roma che continua a dipingere ogni giorno, è assolutamente personale, tutta sua. Oggi lo attende un nuovo impegno, una nuova grande mostra che sta preparando e che si terrà in aprile in uno degli alberghi più belli della capitale, l’Hotel St.Regis.“Dipingerò una Roma assolutamente speciale, così come vorrei che fosse, dove ogni palazzo, ogni chiesa e ogni fontana saranno parte di quello che vedo e, soprattutto, di quello che sogno di vedere, con i colori che ancora non ho usato, tutti insieme, nello stesso momento e, naturalmente, una nuova luce, ancora diversa”.