Dal punto di vista geopolitico, il 2014 sembra essere stato l’anno della Russia. Di certo, è stato l’anno in cui la percezione della Russia è cambiata più volte: da potenza (ri)emergente capace di organizzare sulle rive del Mar Nero le più costose olimpiadi invernali della storia, a minacciosa reincarnazione delle tradizionali ambizioni imperiali moscovite. La percezione che la Russia ha di se stessa è, invece, rimasta immutata: una grande potenza ferita e umiliata, che deve aprirsi un varco nell’accerchiamento di ostilità di cui è fatta oggetto, al fine di ritrovare la sua grandezza passata.
Ognuna di queste percezioni contiene una parcella di verità, che la rende plausibile agli occhi dei propri sostenitori. Ma ognuna di queste percezioni contiene anche una buona dose di esagerazione, o di distorsione, o addirittura di falsificazione: perché ognuna di esse è, al tempo stesso, strumento di politiche di potenza diverse e contrapposte. Vediamo nel dettaglio.
La tesi della Russia potenza (ri)emergente si basava sulla straordinaria ripresa dopo il decennio critico seguito al crollo dell’URSS. Quella tesi era però spesso viziata da due congetture quantomeno azzardate: la prima, che lo sviluppo dei paesi emergenti – e in particolare dei BRICS – fosse continuo e irreversibile; la seconda, che Putin fosse una specie di supereroe della politica internazionale, capace di piegare gli eventi con la sola forza della volontà (errore prospettico dovuto, con tutta probabilità, al raffronto con quasi tutti i suoi colleghi sulla scena mondiale). Quella tesi, infine, ometteva di prendere in conto alcuni difetti strutturali dello sviluppo russo, innanzitutto la forte dipendenza dalla rendita energetica (circa il 70% delle esportazioni).
La tesi del ritorno alle aspirazioni imperiali della Russia si basava sul progetto di Unione eurasiatica lanciato da Putin nella sua ultima campagna elettorale. Non v’è dubbio che quell’idea contenesse l’ambizione di ricostituire lo spazio imperiale grande russo (o sovietico, che dir si voglia); ma non v’è neppure dubbio che si trattasse anche di una proposta avanzata all’Europa per controbilanciare gli Stati Uniti (e magari la Cina).
Il progetto di Unione eurasiatica prevedeva in sostanza di riunire intorno alla Russia parte degli Stati sorti dalla dissoluzione dell’URSS per giungere, a termine, alla creazione di una “Grande Europa”, intesa come “armonica comunità di economie estesa da Lisbona a Vladivostok” (Putin, su Isvestia del 4 ottobre 2011). Si trattava di un doppio messaggio, inviato al tempo stesso all’Ucraina e all’Unione europea: l’Ucraina sarebbe stata trattata meglio in Europa se vi si fosse integrata come parte di un insieme più grande e più forte, piuttosto che come Stato a se stante; e l’Europa avrebbe potuto contare sulla partnership dell’heartland grande russo, e dar vita così ad una super-superpotenza in grado di sovrastare gli Stati Uniti (e magari la Cina).
Era evidente che quel progetto sarebbe stato avversato in primo luogo dagli Stati Uniti, che si erano spesi per estendere le frontiere della NATO verso Est proprio per ostacolare una simile eventualità. Nel dicembre 2012, Hillary Clinton affermò che Washington stava “trying to figure out effective ways to slow down or prevent… [the] move to re-Sovietize the region… called Eurasian Union” (cercando di trovare vie efficaci per rallentare o impedire le mosse per ri-sovietizzare la regione chiamata Unione eurasiatica). Su quella linea, gli Stati Uniti hanno trascinato gli europei a dir poco riluttanti, in nome dei “comuni valori occidentali”.
La tesi russa dell’accerchiamento ostile, infine, affonda le sue radici nella “paranoid fear of invasion”(G. Patrick March), eredità storica risalente all’irruzione dell’Orda d’oro nel XIII secolo. Ma è anche una costruzione ideologica odierna, intesa appunto a far breccia nel “fronte occidentale”: la Russia sarebbe il necessario complemento di un’Europa tradizionale, indipendente, estranea o perfino ostile al modello consumistico, relativistico e decadente dell’American way of life.
Questa linea basava in realtà su fragili presupposti: un eccesso di fiducia nell’Europa, un prezzo del greggio superiore ai cento dollari al barile e un dollaro a trentacinque rubli. Oggi, con il greggio a 60 dollari, il dollaro a 50 rubli e un’ipotesi (del ministro delle FinanzeSiluanov) di caduta del 4% del prodotto nel corso del prossimo anno, a Putin sono rimasti, come alleati in Europa, solo i laudatores temporis acti, i partigiani del bel tempo che fu, con la sua estraneità agli Stati Uniti, con le sue frontiere, i suoi dialetti, le sue monete e industrie nazionali, le sue famiglie coese, e così via rimpiangendo.
L’anno della Russia si chiude mestamente su molte incognite. Se in quello che sta per aprirsi la crisi dell’Europa dovesse aggravarsi, i partigiani del passato potrebbero espandere la loro influenza e rivelarsi così l’asset migliore della Russia putiniana del futuro. In quel caso, gli avversari di Mosca – a Kiev, a Washington o a Pechino – avrebbero tempo e modo di rammaricarsi di molte delle scelte fatte nel 2014.