La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nacque nel 1950 allo scopo di mettere “in comune” il cuore industriale d’Europa, che la Germania e la Francia si erano contese per secoli: i bacini carboniferi dell’Europa del nord-ovest (Fiandre, Paesi Bassi, Renania del Nord e Lussemburgo) e le regioni siderurgiche dell’Alsazia, Lorena, Ruhr e Saar (quest’ultima, all’epoca, protettorato francese).
Quell’iniziativa, considerata come il primo passo verso la creazione della Comunità europea (1957), fu resa possibile dalla cooptazione della Francia tra i paesi vincitori della guerra. Una prerogativa che ne faceva la testa politica di un’operazione cui la Germania, per parte sua, era costretta a unirsi per sanare le rovine materiali e politiche lasciate in eredità dall’esperienza nazista.
Nonostante ciò, la Francia considerava quell’Europa del carbone e dell’acciaio ancora troppo sbilanciata a nord, ancora troppo “tedesca”, almeno in potenza: tutta la regione che veniva messa in comune nella CECA era, infatti, un’area d’influenza germanica, ad eccezione di poche aree d’influenza francese in Vallonia, Piccardia e Champagne.
Ricordando che, nel 1871, la Germania aveva annesso l’Alsazia e la Lorena proprio col pretesto dell’area di influenza, nel 1950 la Francia esigette un contrappeso mediterraneo. Ecco perché l’Italia, che non aveva nulla da spartire con il cuore del carbone e dell’acciaio, fu a sua volta cooptata nella CECA e promossa membro fondatore dell’avventura europea.
Dal Cinquecento ad oggi, l’Italia è stata al tempo stesso il teatro e uno degli oggetti dello scontro continentale tra Francia e Germania. Oggi, tra la zavorra ideologica che impedisce a Parigi di muoversi vi è anche la convinzione che gli equilibri geopolitici in seno all’Europa siano (o almeno: dovrebbero essere) quelli del 1950; e quindi che l’Italia sia ancora una pedina da giocare contro la Germania. La realtà, ovviamente, è un’altra: l’Europa franco-tedesca del 1950 è diventata l’Europa germano-francese nel 1992, e oggi, con l’interminabile crisi politica a Parigi, è sempre più germano- e sempre meno francese.
L’idea accarezzata dall’anatra zoppa François Hollande di aprire un “fronte sud” con l’Italia e magari la Spagna e la Grecia per contrapporre “l’Europa della crescita” all’“Europa dell’austerità” si è definitivamente infranta sulla sua ultima crisi di governo (forse conclusa, o forse appena cominciata), e sulle due ultime nomine chiave ai vertici europei, quella del presidente Donald Tusk, e della responsabile della politica estera Federica Mogherini.

Il piano Schuman
Nella futura Commissione, alla Francia toccherà quasi certamente una nomina di peso (anche se il candidato di Parigi è il titolare del disastro economico del primo governo di Hollande). Il retaggio storico del Novecento impedisce infatti alla Germania – oggi ancora, e prevedibilmente per gli anni a venire – di camminare da sola. Anche se l’Unione dovesse incarnare solo gli interessi tedeschi (il che, ovviamente, non potrà mai essere), Berlino avrà comunque sempre bisogno di ripartire il peso delle responsabilità su più gambe europee. A costo di chiudere un occhio sui risultati calamitosi dell’inazione di Parigi, e di chiudere entrambe le orecchie all’incessante querimonia francese contro le “ricette tedesche”. Per la stessa ragione, Berlino farà quanto le è possibile per mantenere Londra nell’Unione, malgrado le numerose topiche di David Cameron in proposito.
Ma le gambe francesi e inglesi sono diventate fragili e insicure. Berlino non vi può rinunciare, certo, ma non vi può neppure fare affidamento. Donald Tusk e Federica Mogherini, così come il futuro capo della Commissione, Jean-Claude Junker, rappresentano quindi tre punti d’appoggio ulteriori, che simboleggiano lo spostamento lento ma inesorabile dell’asse geopolitico europeo dal cuore carbonifero franco-tedesco verso le marche orientali del continente.
Anche per la Polonia il retaggio della storia pesa come un macigno. Uscita dall’orbita russa, si è trovata immediatamente catapultata nell’orbita tedesca, perché tra Germania e Russia non esiste no man’s land geopolitico. Per questo Varsavia ha sempre cercato un offshore balancer, una terza potenza protettrice dalle convergenti brame di Mosca e di Berlino: la Francia al tempo di Napoleone, l’Inghilterra tra le due guerre, e gli Stati Uniti dopo il 1992.
Oggi, però, la Polonia sembra sempre più incline a considerare con realismo il suo ruolo di marca orientale dell’Unione, e pronta a trarne il maggior vantaggio possibile. A gennaio scorso, negli stessi giorni in cui si esprimeva in modo molto colorito sul falso senso di sicurezza offerto dalla special relationship con gli Stati Uniti, il pugnace ministro degli Esteri, Radosław Sikorski definiva l’euro il «cuore pulsante» dell’Europa.
Nella relazione con Mosca, il protagonismo bellicoso della Polonia e le supposte condiscendenze dell’Italia possono tradursi o in un’ingovernabile schizofrenia o nel giusto dosaggio di bad cop e good cop. Sull’esito finale non peseranno tanto le qualità personali di Tusk e Mogherini, quanto la direzione che Berlino riuscirà a imporre con tatto e corresponsabilizzazione a un’Europa passata, in sessantacinque anni, dal cuore del carbone al cuore dell’euro.