“Nobody gives a damn about Palestinians”, così si esprimeva, alcuni giorni fa, un giornalista israeliano invitato su un plateau televisivo a interpretare il solito ruolo di parafulmine o vittima sacrificale dell’ira o della riprovazione degli altri ospiti.
Eppure, quel giornalista aveva ragione. A nessuno (sottinteso: nessuno degli attori politici in gioco, direttamente o indirettamente) importa niente dei palestinesi. Certo, non gliene importa niente ad Hamas, che li usa come scudi umani delle loro rodomontate militari. Certo, non gliene importa niente all’Egitto, alla Turchia, al Qatar o all’Iran, che si servono del dolore delle vittime di Gaza per cercare di risollevare le loro azioni nella borsa valori mediorientale. Certo non gliene importa niente alle prefiche internazionali di tutte le risme, la cui esecrazione e il cui pianto sono regolati da un contagocce esclusivamente politico: piangere molto per i bambini di Gaza, poco per i bambini del Sudan del Sud o della Repubblica Centrafricana, nulla per i bambini delle regioni orientali dell’Ucraina.
Paradossalmente, coloro a cui la sorte dei palestinesi interessa di più sono i dirigenti israeliani. Fin dal 1948, gli arabi di Palestina hanno rappresentato una spina costante nel loro fianco. Ma, nel 1948, il problema era quasi trascurabile, perché Israele era sostenuta dall’Unione Sovietica (soprattutto) e dagli Stati Uniti contro le vecchie potenze coloniali europee, e disponeva perciò di margini d’azione pressoché illimitati. Nel 1948, i pruriti morali riguardavano gli oppressi di altre regioni del pianeta: quelle contese tra russi e americani.
Quando, nel 1956, Israele si alleò proprio con le vecchie potenze coloniali per attaccare l’Egitto, i russi e gli americani – ancora uniti nella comune missione “anticoloniale” – non esitarono a rovesciare la loro posizione rispetto allo Stato ebraico, condannandone l’azione e obbligandolo a ritirarsi dal Sinai.
La “causa palestinese” fu scoperta solo negli anni Sessanta, cioè quando – liquidata definitivamente la presenza britannica e francese – il Medio Oriente divenne terreno di competizione diretta tra le due superpotenze. Una delle tante decisioni disastrose di Washington dell’epoca della guerra fredda fu di abbandonare Nasser, e quindi l’Egitto, nelle mani di Mosca. Come nel caso di Taiwan e di Cuba, gli interessi immediati e gli ottenebramenti ideologici si trasformarono in generosi regali all’URSS. Come in Cina e nei Caraibi, i dirigenti del Cremlino non persero tempo a infilarsi nella breccia aperta proprio dai loro “rivali” di guerra fredda.
La “causa palestinese” fu dunque un effetto collaterale dell’investimento politico russo in Egitto, e poi in Siria, in Irak e nello Yemen del Sud. A quell’offensiva, giocata sul terreno dei “popoli oppressi”, gli americani replicarono con una sorta di accerchiamento: i loro alleati arabi – essenzialmente la Giordania (la cui popolazione è a maggioranza palestinese) e l’Arabia Saudita entrarono in competizione nel sostegno alla “causa palestinese”, mentre gli alleati non arabi – la Turchia e l’Iran – trovarono un’intesa “naturale” con Israele, l’altra potenza non araba della regione.
La guerra fredda divenne calda nel campo palestinese. Tra il settembre 1970 e il luglio 1971, l’esercito giordano, coadiuvato da quello pakistano, e sostenuto dagli Stati Uniti, dichiarò guerra ai palestinesi dell’OLP provocando, oltre a decine di migliaia di vittime soprattutto tra i rifugiati dell’esodo di ventidue anni prima, anche la guerra civile tra le milizie dell’OLP, e la fuga di Arafat in Libano (che a sua volta creò le premesse per la guerra civile libanese, scoppiata nel 1975). Tra i contraccolpi del “Settembre Nero” giordano vi furono anche la scomparsa di Nasser (settembre 1970), stroncato da infarto, e il colpo di Stato di Hafez al-Assad in Siria (febbraio 1971), padre dell’ormai più tristemente celebre Bashar.
Anche allora, a nessuno importava niente dei palestinesi. L’URSS e gli Stati Uniti avevano la loro agenda planetaria, coincidente in Europa ma divergente negli altri continenti. Gli Stati del Medio Oriente (in primo luogo l’Egitto), per poter sperare di trarre vantaggi dalla sofferenza palestinese, avevano innanzitutto bisogno che quella sofferenza durasse, e non fecero nulla per risolvere il problema di profughi e dei rifugiati.
Pavlovianamente, la sinistra succube del verbo di Mosca abbracciò la “causa palestinese” con lo stesso slancio con cui, qualche decennio prima, aveva abbracciato la causa dello Stato “socialista” di Israele. La nozione di “popolo oppresso” veniva decisa al Cremlino, e i manifestanti del mondo intero si scaldavano per il Vietnam e la Palestina, ignorando tutti gli altri popoli oppressi le cui sorti non favorivano (o addirittura ostacolavano) i disegni politici dell’URSS.
La scomparsa dell’URSS, nel lontano 1991, ha congelato le obbedienze ideologiche. In mancanza di una Chiesa in grado di orientarne le passioni, i manifestanti di sinistra continuano compulsivamente a ripetere le parole d’ordine di vent’anni fa. Anche le grandi e le medie potenze sono rimaste prigioniere di una contingenza storica che non c’è più. E nell’imputridimento di una situazione da così lungo tempo stagnante, i perdenti sicuri sono Israele e i palestinesi. I palestinesi, la cui sorte non interessa a nessuno.