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July 24, 2014
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Un disperato grido d’aiuto dai cristiani dell’Iraq: intervenite, rischiamo il genocidio

Francesco SemprinibyFrancesco Semprini
Time: 4 mins read

ANKAWA. (Kurdistan iracheno) «Questo è nuovo genocidio. Ora il rischio non è più quello di una nuova guerra civile che andrebbe a dilaniare ulteriormente un popolo già devastato dagli errori compiuti prima, durante e dopo la guerra. Ora il rischio è molto più grave». A parlare è l'arcivescovo di Mosul, Amil Nona, che ripercorre quei drammatici momenti dell'assalto dell'Isis e della fuga degli sfollati. Lo incontriamo nella basilica di St. Joseph, ad Ankawa, enclave cristiana a nord di Erbil, nel Kurdistan iracheno, impossibilitato a rientrare nella sua città. Ed è qui che, a poche ore dall'inizio della nuova ondata repressiva, si è incontrato con gli altri leader religiosi cristiani del centro e del nord dell'Iraq, Bashar Matiwardah, arcivescovo di Erbil, e Nichodemus Daoud Matti Sharaf, della chiesa ortodossa siriaca di Mosul, Kirkuk e Kurdistan. L'obiettivo è di unire le forze per mostrare al mondo intero quanto sta accadendo in quelle zone. Ed è da qui che rivolge un appello a Papa Francesco e alla comunità internazionale.

«Questo è nuovo genocidio, la nostra denuncia deve essere forte, è l'ennesimo episodio di quella persecuzione dei cristiani che prosegue dal 1913». 

Ci spiega cosa sta accadendo?

«Le cose sono precipitate venerdì, abbiamo iniziato a ricevere una enorme quantità di telefonate da Mosul e dintorni di persone che chiedevano aiuto e consigli, la polizia islamica e l'Isis avevano fatto scattare una caccia al cristiano, una volta intercettato gli concedevano due opzioni: fuggire o morire». 

E poi gli jihadisti cosa hanno fatto?

«Irruzione nelle case portando via tutto, passaporti, documenti, denaro, gioielli e cellulari. Centinaia di famiglie sono state spogliate di tutti i loro beni prima di essere cacciate dalla città, altri sono stati picchiati ai check-point degli islamisti mentre stavano fuggendo. E poi quelle scritte segnaletiche sulle porte della case dei cristiani: "Nasranieen"».

Cosa bisogna fare ora?

«Il primo passo è denunciare al mondo quanto sta accadendo quindi procedere subito all'aiuto degli sfollati, la prima ondata dei quali dovrebbe essere anche di 2500 persone. Abbiamo già accolto circa 50 famiglie in una delle nostre chiese di Al Qosh».

Facciamo un passo indietro, ci racconta cosa è successo all'inizio di giugno?

«Il 4 giugno sono andato fuori da Mosul, come potrà immaginare la mia diocesi si estende ben oltre i confini urbani e ricomprende tutta l'area che si sviluppa attorno alla città. Tenete presente che parliamo del secondo centro più grande dell'Iraq. Mi sono quindi recato in una parrocchia un po' fuori e proprio quella sera ho sentito che era scattato il coprifuoco ordinato dalle autorità regolari, quelle irachene. Il giorno dopo ho tentato di rientrare in città, ma non me lo hanno permesso, poi la sera si è scatenato quello che abbiamo visto».

Così è iniziata la grande fuga?

«Si la gente è scappata, in particolare i cristiani, temevano ritorsioni da parte degli jihadisti. Ho iniziato a capire quello che stava succedendo quando mi hanno detto che l'esercito e la polizia ci avevano lasciato, eravamo in balia di queste orde».

Vuol dire che c'è stata una specie di invasione?

«II realtà occorre distinguere. Quelli che sono arrivati erano pochi, la maggior parte erano già in città. Coloro che sono giunti da fuori in quei giorni non erano iracheni, erano piuttosto sauditi, afghani, pakistani, marocchini, si ci sono molti nordafricani tra i miliziani stranieri, e ho sentito anche di alcuni europei».

Hanno tentato di bloccare la gente in fuga?

«All'inizio no, volevano far vedere di non essere feroci volevano attuare una propaganda positiva. Poi hanno iniziato a usare violenza, una terribile violenza».

Chi sono le persone scappate da Mosul?

«Persone della classe media che avevano attività in città, la maggior parte avevano un lavoro fisso, impiegati, professori universitari, hanno lasciato lavoro e ora non sanno cosa accadrà. Gli impiegati ad esempio non hanno ricevuto gli stipendi di questo mese e non sanno quando rivedranno i loro soldi. Tenete presente che Isis ha preso in mano anche il controllo economico di questi centri».

Cosa pensa accadrà ora?

«Il peggio deve ancora arrivare, temo una guerra civile fra le parti, ma anche una persecuzione religiosa o etnica, è questo di cui abbiamo più paura un'altra guerra civile».

Qual è adesso la priorità?

«Sostenere gli sfollati e riuscire ad aiutare chi è rimasto a Mosul, lo so è complicatissimo. Ho visto famiglie che hanno camminato per quattro o cinque ore sotto i bombardamenti dell'artiglieria e hanno bisogno di assistenza, sto parlando di tutti non solo dei cristiani, ma anche di musulmani, curdi e turcomanni».

Cosa ha portato a tutto questo?

«Non voglio entrare in argomentazioni politiche, ma quello che posso dire è che qui nella nostra città, fino al 2003 non c'era questa differenza tra sciiti, sunniti, cristiani e curdi. Dopo il 2003 con la guerra e quello che è accaduto dopo hanno tentato di rifare uno Stato facendo una serie di sbagli reiterati e gravi, non hanno capito che dopo Saddam Hussein bisognava solo cambiare alcune cose, non rivoltare un Paese da cima a fondo. Tanti sbagli, sono stati fatti tanti sbagli con questi risultati, sbagli della guerra, della politica, della strategia».

Cosa chiede alla comunità internazionale?

«Innanzi tutto serve una soluzione politica oltre che militare, non dico che quest'ultima non sia necessaria, anzi, ma intervenendo solo militarmente si raggiungono solo soluzioni temporanee. La comunità internazionale da parte sua dovrebbe tenere presente che non si deve badare agli interessi, ma alle persone, alla dignità delle persone che vale di più di ogni altra cosa».

Si sente di rivolgere un appello al Santo Padre?

«Il Santo Padre ci ricorda sempre nella sua preghiera, ci ha già ricordato nell'Angelus parlando di riconciliazione e giustizia. Ecco noi gli chiediamo di ricordarci nella preghiera e di parlare spesso di questa zona dilaniata dalla violenza».
 

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Francesco Semprini

Francesco Semprini

Francesco Semprini è inviato internazionale per La Stampa. Nato e cresciuto a Roma si è trasferito vent'anni fa a New York dove ha perfezionato gli studi economici, per poi occuparsi di politica e finanza americana. Ha trascorso l'ultimo decennio raccontando conflitti e crisi geopolitiche da tutto il mondo. Tra le altre quelle in Iraq, Afghanistan, Siria, Venezuela, Libano, Kosovo, Libia, Pakistan, Haiti. E' corrispondente presso le Nazioni Unite da dove scrive di relazioni diplomatiche. Francesco Semprini is a long time international correspondent with La Stampa. Born and raised in Rome he moved to New York twenty years ago. He spent the last decade covering geopolitical crises and conflicts around the world. Among the others in Iraq, Afghanistan, Syria, Venezuela, Lebanon, Kosovo, Libya, Pakistan, Haiti. He is based at the United Nations from where he writes about current and diplomatic affairs.

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